Le conseguenze della scomparsa del rispetto reciproco

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Steno Sari

di Steno Sari — C'è qualcosa di profondamente alterato nel nostro tempo. Volgarità, aggressività verbale, sarcasmo sprez­zante: tutto si dispiega sotto gli occhi di tutti, senza alcun pudore. Un tempo la vergogna aveva un ruolo sociale cruciale: regolava i comportamenti, nutriva una coscienza interiore del li­mite. Oggi è considerata un ostacolo all'autenticità, un vincolo da elimina­re. Eppure, senza senso del pudore, la convivenza civile si disintegra e la frattura sociale diviene sistemica.

La decenza è evaporata dalla scena pubblica, soppiantata da una sfronta­tezza elevata a modello. L'indecenza impera e corrode la fiducia reciproca. Distrugge il tessuto morale che lega una società: quella minima base eti­ca condivisa che permette agli esseri umani di vivere insieme senza ferirsi. Dove tutto è lecito, nulla ha più valo­re.

Il pudore è svanito e non si avverte più disagio nell'insultare, nel denigra­re, nel prevaricare verbalmente.

Opinioni urlate si ammantano di verità, le emozioni altrui vengono de­rise, le sensibilità calpestate con non­curanza. Come se il rispetto fosse un vezzo borghese da liquidare. Sui so­cial, nei talk show, perfino nei conte­sti istituzionali, l'eccesso ha soppian­tato la misura. Chi parla con toni pa­cati è ignorato. Chi urla conquista visi­bilità.

Assistiamo a una trasformazione culturale profonda che ha corroso il senso collettivo del limite. Dove c'era pudore, ora c'è esibizione. Dove c'era discrezione, oggi domina il fragore. Zygmunt Bauman lo ha espresso con lucidità: "La crisi del rispetto recipro­co è la più pericolosa di tutte, perché mina le fondamenta della conviven­za".

Quella in corso non è solo una tra­sfigurazione del linguaggio: è una de­ generazione relazionale. L'altro non è più un interlocutore, ma un avversa­rio. L'empatia si ritrae, l'indifferenza si propaga. L'etica del rispetto è scher­nita come segno di debolezza. Gli stu­diosi parlano di "desensibilizzazione collettiva", un fenomeno sociologico per cui più ci esponiamo a maleduca­zione e aggressività, meno ci tocca­no. E più diventano "normali", più vengono emulate. L'esito è catastrofi­co: si abbassa la soglia di sopportazio­ne verso condotte improprie, minan­do il senso di rispetto e solidarietà. Ne scaturisce un impoverimento del­le relazioni sociali e una crescente dif­ficoltà nel preservare una convivenza civile fondata sulla responsabilità condivisa.

Certo, ognuno ha diritto alla pro­pria espressione. Ma la libertà non può tramutarsi in arma per ferire. La convivenza civile esige un recupero del senso del limite: trattenersi, pen­sare prima di parlare, interrogarsi se ciò che esprimiamo edifica o demoli­sce. Il rispetto non è un mero optio­nal né una formalità obsoleta: è la so­glia ineludibile dell'umanità condivi­sa. Un'etica pubblica matura si fonda non sul diritto di proferire ogni cosa, ma sul saper tacere. L'autocontrollo, il tatto, la sobrietà – oggi scherniti – sono in realtà i pilastri invisibili di una società sana. È tempo di cessare di considerare la decenza un mero retaggio del passato: è, al contrario, la chiave per rimanere sani in un mon­do malato.

Articolo pubblicato su Libero il 19 agosto 2025 e ripubblicato con il permesso dell'autore

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