Le leggi anti-religiose dell’Italia laica

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«Questa generale contrarietà alla realizzazione di edifici di culto non cattolico potrebbe essere intesa come espressiva di quella che è stata definita come "politica della purezza" etnica e religiosa che senza dubbio crea una frizione con i valori fondanti la nostra Carta costituzionale.» (A. Lorenzetti)

La deriva anti-religiosa inaugurata dalla Regione Lombardia con la famigerata legge “anti-moschee” continua nonostante le censure della Corte Costituzionale.

Il principio di libera Chiesa in libero Stato è ormai un ricordo sbiadito, in effetti non è mai stato veramente rispettato. Fin dalla sua nascita il nostro ordinamento repubblicano e democratico ha accettato compromessi col potente inquilino di oltre Tevere, introducendo nella costituzione norme discriminatorie, ad esempio gli articoli 7 e 8 che dividono le religioni in serie A e serie B, e assorbendo la legge fascista del 1929 sui culti ammessi e i patti lateranensi, sancendo anche l’impossibilità di abrogarli con referendum popolare.

Ma ai giorni nostri stiamo raggiungendo minimi storici mai toccati in precedenza in materia di discriminazione religiosa. Alcune Regioni vorrebbero arrogarsi il diritto di decidere perfino dove i cittadini italiani devono praticare la loro religione.

Sull’onda emotiva causata dagli atti terroristici degli ultimi anni, superficialmente classificati come attentati di matrice islamica, legislatori, forse ignoranti ma sicuramente scaltri, sobillati dai finti esperti dei gruppi anti-sette come la FECRIS (Federazione Europea dei Centri di Ricerca e Informazione sul Settarismo) e le sue consociate e da media compiacenti, introducono leggi che sono evidentemente incostituzionali e liberticide.

Ad oggi tre regioni (Lombardia, Veneto e Liguria) hanno adottato queste leggi spacciandole per questioni urbanistiche e inserendole in precedenti leggi per la gestione del territorio. In realtà sono gravissimi atti di ingerenza nella sfera della libertà di praticare il proprio credo.

Mediando il nome dai titoli di stampa le avevamo chiamare un po’ imprecisamente “leggi anti-moschee”, perché il pretesto di chi le ha ideate è quello di controllare il proliferare di moschee abusive nelle quali potrebbero annidarsi i terroristi e i loro simpatizzanti. I fautori di queste leggi sostengono addirittura che le moschee abusive, non edificate sotto il controllo degli organi dello Stato, potrebbero essere fucine di estremisti e futuri terroristi.

In realtà queste leggi si stanno rivelando strumenti utili per discriminare tutti i gruppi religiosi esistenti sul territorio, dato che le norme in esse contenute si applicano a tutti, non solo ai mussulmani. Per esempio, sono ben 23 in Lombardia i luoghi di culto dei cristiani protestanti che sono stati chiusi grazie all’applicazione della legge n. 12 «Legge per il Governo del Territorio».

Il Governo, consapevole del fatto che la Regione Lombardia ha travalicato i limiti dei suoi poteri, ha impugnato la legge ricorrendo alla Corte Costituzionale. Quest’ultima ha sancito l’incostituzionalità di alcuni articoli del testo di legge, ma ha lasciato intonso l’impianto generale della normativa. Risultato: gli amministratori dell’ente lombardo, che nel corso della vicenda avevano anche dileggiato la Corte chiamandola “consulta islamica”, hanno alla fine cantato vittoria continuando imperterriti ad applicare la famigerata legge “anti-moschee”.

Stimolati dall’esperienza lombarda, i governanti della Regione Veneto hanno percorso la stessa strada approvando lo scorso aprile una legge simile, se non peggiore. Anche nel caso del Veneto il Governo ha impugnato la legge. FOB aveva dato il suo contributo a questa impugnazione promuovendo una petizione che chiedeva appunto al Governo di impugnare la legge.

Mentre eravamo in attesa della pronuncia della Consulta sulla legge veneta, anche la Regione Liguria ha approvato una sua legge “anti-moschee”, ancor più restrittiva (e incostituzionale) di quelle lombarda e veneta perché prevede l’obbligo di ricorrere al referendum popolare per approvare l’edificazione di un edificio di culto.

Come se ciò non bastasse, alcuni Deputati e Senatori, nel frattempo, hanno presentato disegni di legge in tutto simili tra loro e scopiazzati dalle leggi regionali di cui sopra, per adottare a livello nazionale le regole draconiane in essi contenute.

Della legge lombarda e di quella veneta si è parlato il 22 ottobre scorso durante un convegno dal titolo “La libertà religiosa e le sfide attuali” promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bergamo.

anna-lorenzetti-200.jpgTra gli organizzatori e i relatori vi era la dott.ssa Anna Lorenzetti, titolare di una ricerca approfondita sulla legge lombarda “anti-moschee”.

Nel suo intervento la ricercatrice ha ripreso alcuni dei concetti da lei già espressi nel suo articolo scientifico dal titolo “La nuova legislazione lombarda sugli edifici di culto fra regole urbanistiche e tutela della libertà religiosa”.

L’articolo, frutto di una approfondita ricerca condotta con metodo scientifico, ha evidenziato i molteplici aspetti incostituzionali e censurabili della legge anti-moschee lombarda. Aspetti che, a quanto pare, non sono stati adeguatamente considerati nemmeno dalla Corte Costituzionale e che, in effetti, sono applicabili anche alle leggi anti-religiose approvate o in corso di approvazione in altre regioni.

Sebbene l'articolo della dott.ssa Lorenzetti sia a tutti gli effetti una pubblicazione scientifica e, come tale, piuttosto tecnica, riteniamo utile riprodurlo qui di seguito perché contiene spunti importantissimi per comprendere quanto queste leggi anti-religiose siano da disapprovare e contestare in tutti i modi possibili.


La nuova legislazione lombarda sugli edifici di culto
fra regole urbanistiche e tutela della libertà religiosa*

di Anna Lorenzetti **
(13 giugno 2015)

1. Introduzione: il quadro generale

Recentemente, la Regione Lombardia è tornata sulla materia degli edifici di culto, già oggetto di una vicenda assai articolata, iniziata oltre vent’anni or sono, con l’approvazione di una legge, poi dichiarata incostituzionale [1], che limitava alla sola confessione cattolica e a quelle munite di intesa con lo Stato l’accesso ai contributi pubblici destinati all’edilizia di culto.

Nel 2005, la questione era stata nuovamente regolata nell’ambito della normativa in materia di governo del territorio (L.r. Lombardia n. 12 del 2005, «Legge per il Governo del Territorio»), con una disciplina che oltre agli edifici di culto, riguardava anche attrezzature destinate a servizi religiosi [2].

I destinatari erano individuati da un lato, negli enti «istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica» (art. 70.1, l.r. Lombardia, n. 12/2005) e, dall’altro, in quelli «delle altre confessioni religiose come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune». Solamente per questi ultimi, era stata inserita la richiesta che gli statuti esprimessero il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e la stipula (preventiva) di una “convenzione” con il Comune, di cui tuttavia non venivano specificati contenuti, né finalità (art. 70.2, l.r. Lombardia, n. 12/2005). Su questo punto, erano state sollevate significative perplessità alla luce dell’ampiezza del potere discrezionale riconosciuto all’autorità pubblica nel decidere l’an e il quomodo della stipula. Infatti, la formulazione letterale della legge rimetteva all’autorità locale la definizione dei criteri sulla cui base stabilire se l’organizzazione potesse o meno essere qualificabile come confessione religiosa, se l’istanza provenisse da un ente a essa riferibile e se la presenza all’interno del comune si potesse considerare diffusa organizzata e stabile [3].

La legge richiedeva poi che nel Piano dei Servizi [4] fossero specificamente individuate le aree che accolgono attrezzature religiose o ad esse destinate, sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose (art. 72.1, l.r.). A prescindere dall’esistenza di attrezzature religiose, era comunque assicurata la previsione di nuove aree a ciò destinate, tenendo conto delle esigenze manifestate dalle confessioni religiose (art. 72.2, l.r.). Si prevedeva, infine, la suddivisione delle aree destinate a edilizia di culto o alle altre attrezzature per servizi religiosi sulla base della consistenza e dell’incidenza sociale delle diverse confessioni (art. 72.4, l.r.).

Per la ripartizione dei contributi fra coloro che avevano presentato domanda, era stato introdotto un riferimento alla consistenza e incidenza sociale nel comune delle rispettive confessioni religiose (art. 73.3, l.r.).

Da ultimo, in caso di realizzazione diretta delle strutture da dedicare al culto, era prevista la possibilità di regolare i rapporti con il Comune mediante convenzione (art. 73.4, l.r.).

Dubbi significativi erano stati sollevati sulla richiesta di requisiti decisamente stringenti per le confessioni diverse da quella cattolica: infatti, la legge subordinava la possibilità di realizzare edifici di culto alla presenza organizzata, diffusa e stabile su un territorio, con un’estensione interpretativa di un requisito in origine previsto soltanto quale criterio per stabilire la proporzione nella distribuzione dei contributi [5]. Anche la valutazione delle «esigenze locali» (ai fini della predisposizione del Piano dei Servizi) quale criterio orientativo nell’esercizio dell’attività discrezionale dei Comuni appariva quasi ammettere che gli interessi di chi professa una confessione religiosa diversa da quella cattolica o dalle altre che hanno sottoscritto l’intesa con lo Stato italiano potessero essere assoggettati ai voleri della maggioranza così come rappresentata dall’autorità locale chiamata ad esprimere un parere [6].

Successivamente, la Legge Lombarda di Governo del Territorio era stata ulteriormente modificata nel senso di un ulteriore irrigidimento delle regole urbanistiche [7], così da rendere tendenzialmente più difficoltosa la realizzazione di nuovi spazi da adibire all’esercizio di un culto e ammettere controlli più serrati da parte della pubblica autorità; al contempo, ne erano risultate ampliate le maglie di discrezionalità dei decisori pubblici [8].

Nella loro applicazione pratica, le rigide previsioni della legge di Governo del Territorio erano tuttavia state “smussate” da una copiosa giurisprudenza amministrativa [9] che ne aveva delimitato l’impatto applicativo, “leggendo” in senso costituzionalmente orientato le previsioni ivi contenute [10].

2. Le recenti modifiche alla disciplina sull’edilizia di culto

In un quadro già di dubbio equilibrio fra i diritti e gli interessi contrapposti, la Regione Lombardia ha recentemente introdotto una ulteriore modifica alla Legge Regionale di Governo del Territorio rettificando i requisiti per edificare strutture destinate al culto [11]. In primo luogo, la nuova modifica ha introdotto un ulteriore strumento di pianificazione urbanistica, il cd. Piano per le attrezzature religiose, individuato come atto a sé incluso nel cd. Piano dei servizi. Questo nuovo strumento urbanistico dimensiona e disciplina le aree che accolgono (o sono destinate ad) attrezzature religiose, sulla base delle esigenze locali, una volta valutate le istanze degli enti delle confessioni religiose [12].

In assenza dell’approvazione del Piano, che ha le medesime complesse procedure di approvazione previste per il Piano di Governo del Territorio [13], la legge preclude l’istallazione di nuove attrezzature religiose [14], di fatto subordinando la loro realizzazione all’azione dei decisori pubblici.

Il procedimento di approvazione del Piano prevede l’acquisizione di pareri da parte di «organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura», così da «valutare possibili profili di sicurezza pubblica» [15].

Qualora i Comuni intendano prevedere nuove attrezzature religiose è assegnato un termine di diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale per adottare e approvare il Piano, decorso il quale l’approvazione dovrà venire unitamente al nuovo Piano di governo del territorio [16].

È poi prevista la facoltà per i Comuni di indire un referendum e dunque di sottoporre al voto popolare la realizzazione di nuovi edifici di culto [17].

Si prevede poi la possibilità che il Piano delle attrezzature religiose abbia carattere sovracomunale, sulla base di una Convenzione tra comuni limitrofi (e l’individuazione di un Comune capofila) [18]. In questo caso, l’approvazione avverrà con le procedure descritte per ogni Comune, ma si richiede altresì un provvedimento finale, conclusivo della procedura, di cui è responsabile il comune capofila.

Nell’ambito del Piano delle attrezzature religiose è richiesta una serie di infrastrutture di trasporto a servizio degli eventuali edifici di culto, da realizzarsi con spese a carico dei proponenti [19]. Tra queste vi sono strade di collegamento «adeguatamente dimensionate» e adeguate opere di urbanizzazione primaria che, se assenti o inadeguate, devono essere previste. Si impongono poi «distanze adeguate» tra le aree e gli edifici da destinare alle diverse confessioni religiose, precisando che le distanze minime saranno definite con deliberazione della Giunta regionale. Inoltre, si richiede che l’edificio disponga di uno spazio da destinare a parcheggio pubblico, con una superficie doppia rispetto a quella interna. In capo ai richiedenti, e sempre a proprie spese, sorge poi l’obbligo di realizzare un impianto di videosorveglianza [20] esterno all’edificio, che ne monitori ogni punto di ingresso, nonché «adeguati servizi igienici» e accessibilità da parte di disabili. Da ultimo, si richiede la congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le «caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo», così come individuate nel Piano territoriale regionale.

Al piano per le attrezzature religiose viene poi estesa la necessità della Valutazione Ambientale Strategica [21], aspetto già criticamente segnalato in sede istruttoria [22].

Solamente per le confessioni diverse da quella cattolica [23] viene richiesta la stipula di una Convenzione a fini urbanistici con il Comune [24], in cui va espressamente prevista la possibilità della risoluzione o della revoca, qualora sia accertato lo svolgimento di attività ivi non previste [25].

Per consentire ai Comuni la corretta applicazione delle nuove disposizioni, viene istituita una Consulta regionale deputata al rilascio di un parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti richiesti per le confessioni diverse da quella cattolica (ossia la presenza diffusa, organizzata e consistente, sul territorio, un significativo insediamento nell'ambito del Comune nel quale vengono effettuati gli interventi e statuti che «esprimono il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione»); questo nuovo organo, che opererà senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio regionale, vedrà definite composizione e modalità di funzionamento con un provvedimento della Giunta regionale [26].

Come disposizione di chiusura, la legge precisa che le nuove disposizioni non si applicano alle attrezzature religiose esistenti alla entrata in vigore della legge modifica legislativa.

3. La normativa di culto e i suoi profili di criticità

La modifica apportata alla legge urbanistica lombarda quanto alla edilizia di culto presenta numerose criticità in relazione alla compressione della libertà religiosa e dell’uguaglianza, nonché quanto alla tensione che innesca nel riparto di competenze Stato-Regioni.

3.1. La nuova legge e la tensione fra esigenze di regolazione urbanistica, libertà religiosa, uguaglianza e rapporti fra Stato e Chiese

Come riconosciuto dalla dottrina che si è occupata del tema [27], l’edilizia di culto si colloca nell’alveo della libertà religiosa, posto che il poter disporre di un luogo in cui esercitarla, in forma singola o associata, ne rappresenta senza dubbio alcuno un momento di espressione [28].

In numerosi aspetti, la nuova regolamentazione sembra comprimere la libertà religiosa, libertà costituzionalmente garantita [29], ad esempio, laddove introduce una sorta di binario “aggravato” per la realizzazione di edifici destinati a culti diversi da quello cattolico o da quelli che non hanno sottoscritto un’intesa con lo Stato [30]. Non può che sembrare un paradosso la previsione di ostacoli di ordine amministrativo, finanziario, logistico, alla libertà di culto proprio di quelle religioni che, in quanto minoritarie, avrebbero necessità di maggiori tutele e di realizzare edifici da destinare al culto.

La creazione di un doppio binario in aggiunta infligge con il principio di uguaglianza e con il divieto di discriminazioni in ragione della professione di una fede religiosa sotto numerosi profili. Tra questi, merita un cenno, in prima battuta, la necessaria congruità architettonica degli edifici rispetto ai caratteri del paesaggio lombardo, formula che potrebbe generare effetti discriminatori verso alcune confessioni non proprie della tradizione italiana. Anche la previsione di criteri incerti quale causa di risoluzione e revoca in presenza di attività non previste nella Convenzione con il Comune si pone in conflitto con la tutela della libertà religiosa, dal momento che è certamente ipotizzabile che attività a carattere culturale o aggregativo siano espressione della professione di un culto.

3.2. L’edilizia di culto come specchio della tensione nel riparto di competenze Stato- Regioni

La modifica alla legge urbanistica regionale in materia di culto si presta a una analisi anche rispetto al riparto di competenze Stato-Regioni, posto che l’urbanistica «non è una delle materie che vengono elencate nell’art. 117 Cost. o che appartengono alla potestà legislativa residuale delle Regioni, ma è una competenza che interseca differenti arterie spettanti allo Stato e alle Regioni» [31].

Un primo profilo di criticità è da ravvisare nella previsione della Consulta regionale, nominata dalla Giunta regionale, come organo cui spetta l’emissione del parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti che gli statuti delle confessioni diverse da quella cattolica devono avere, ossia «il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione». Questo sindacato nel merito, si tradurrebbe nella lesione di una competenza esclusiva statale, in quanto materia dei rapporti fra Stato e confessioni religiose [32].

Anche la concretizzazione e la regolazione (con legge regionale) dei principi eurocomunitari e internazionali in materia di libertà religiosa [33] e di non discriminazione in ragione del credo professato configge con il riparto di competenze che, ex art. 117, co. 1, Cost., le Regioni devono esercitare nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Inoltre, una conflittualità può ravvisarsi rispetto alla competenza esclusiva dello Stato in materia di rapporti internazionali e con l’Unione europea (art. 117, co. 2, lett. a) che la legge regionale ha certamente interessato.

Le previsioni in materia di sicurezza – come ad esempio la richiesta di pareri ad esponenti della pubblica autorità ma anche di semplici cittadini – si pongono in violazione con la competenza riservata allo Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza [34] e di coordinamento fra Stato e Regioni sulla materia [35]. Peraltro, più di un dubbio sorge circa la legittimità dell’imporre, con legge regionale, il rilascio di pareri a organi o apparati statali (come la questura o la prefettura), posta la violazione di competenze statali in materia di organizzazione amministrativa dello Stato.

L’ultimo profilo che pone un dubbio sulla compatibilità rispetto all’assetto delle competenze Stato-Regione delineato in Costituzione è la previsione come mera facoltà e non come obbligo per i Comuni di approvare il Piano delle attrezzature religiose, accanto alla richiesta di requisiti che contrastano con la disciplina edilizia dettata a livello statale. Infatti, i limiti circa gli spazi pubblici o riservati ad attività collettive sono stati ritenuti a carattere inderogabile dalla Corte costituzionale (sent. 232/2005), in quanto inerenti l’ordinamento civile e rispondenti ad esigenze pubblicistiche sovrastanti gli interessi dei singoli [36].

3.3. Qualche riflessione

I profili di contrasto che sembrano emergere con le disposizioni costituzionali in materia di libertà religiosa, uguaglianza, rapporti Stato-Chiese non cattoliche, riparto di competenze Stato-Regioni, suggeriscono una riflessione a partire da alcuni snodi problematici di particolare interesse.

3.3.1. Discrezionalità e arbitrio

In prima battuta, può riconoscersi che le modifiche legislative vanno nel senso di un deciso ampliamento del margine di discrezionalità riconosciuto alla pubblica amministrazione (Comuni e Regioni) cui sono demandati compiti di valutazione, verifica, controllo delle attività, latu senso, riconducibili all’esercizio di un culto.

In più passaggi, infatti, la legge prevede l’approvazione di atti, tecnici e politici, da parte dei Comuni, in assenza dei quali è di fatto preclusa non soltanto l’edificazione di nuove attrezzature religiose ma persino il loro adeguamento. Così, ad esempio, per l’approvazione della Convenzione, necessario pre-requisito alla richiesta di realizzazione di qualsiasi nuova edificazione da destinare a culti diversi da quello cattolico; la stessa peraltro sottintende anche un ampio margine di discrezionalità nel contenuto, e di aleatorietà dato che pone nelle mani dell’amministrazione comunale l’an, il quando della sua redazione e sottoscrizione, nonché il quomodo, nella definizione dei suoi contenuti. Del pari, l’approvazione dello strumento pianificatorio urbanistico previsto per questo tipo di edifici, Piano per le attrezzature religiose [37], può essere ritardata dall’inerzia da parte dell’amministrazione e condizionata nei contenuti e nei tempi di attuazione, con il rischio di rendere (di fatto) irrealizzabile qualsiasi nuova struttura. Analogamente può riconoscersi circa l’imposizione delle «distanze adeguate» tra le aree e gli edifici da destinare alle diverse confessioni religiose: posto che le minime misure saranno definite con deliberazione della Giunta regionale, l’inerzia di quest’ultima, di fatto, impedirà di dare vita a nuovi edifici di culto.

Anche il potere di revoca e risoluzione della Convenzione, da parte del Comune, in via unilaterale, apre al possibile rischio di una discrezionalità del decisore pubblico che sfoci nell’arbitrio.

Così pure quanto alle competenze della neonata Consulta regionale per il rilascio dei pareri preventivi e vincolanti sui requisiti richiesti dalla normativa alle confessioni diverse da quella cattolica che, se non istituita e nominata, blocca di fatto qualsiasi attività di realizzazione di edifici di culto [38].

Peraltro, l’intera attività di edilizia religiosa diviene eventuale, posto che la legge fa riferimento alla facoltà e non all’obbligo dei Comuni di prevedere nuove attrezzature religiose. Infatti, l’affermazione per cui i Comuni che intendono prevedere nuovi edifici di culto devono seguire le previsioni di legge, ammette l’eventualità che essi decidano di non consentire affatto la realizzazione di edifici.

La normativa approvata dunque sembra in grado di rendere incerti e mobili i confini dell’arbitrio che viene ad essere riconosciuto come proprio della sfera decisionale dell’autorità (nel caso specifico oltretutto di livello municipale e regionale) nell’individuare il se, il come, il quando realizzare edilizia destinata a culti diversi da quello cattolico.

Peraltro la conclusione circa la necessità di predeterminare dei confini al possibile arbitrio da parte dei poteri decisionali, non si ritiene che sarebbe difforme se tali scelte fossero adottate a livello di legislazione statale, sebbene il fatto che ciò possa avvenire a livello locale, ne amplifica l’ambiguità giuridica. Infatti, la non condivisione dell’esercizio di un dato culto, che pare essere alla base della disciplina, non può essere assunta quale ragione sufficiente a giustificarne l’impedimento giuridico, posto che il diritto ha il compito di assicurare la pace e la convivenza civile, impedendo i danni che le persone possono recarsi tra loro – ne cives ad arma veniant – e non imponendo loro sacrifici inutili o insostenibili.

In forza di questo principio, il diritto e lo Stato neppure dovrebbero scoraggiare la professione di alcuni culti e intromettersi in comportamenti non etero-lesivi dei cittadini, ma soltanto assolvere il compito di tutelare i cittadini, garantendone l’uguaglianza, la sicurezza e i minimi vitali [39].

3.3.2. Aggravio del procedimento e degli oneri

La modifica normativa del 2015 si caratterizza anche per l’introduzione di una serie di elementi che costituiscono un aggravio dei procedimenti amministrativi previsti per la realizzazione di edilizia di culto e di alcune specifiche rivolte soltanto ad alcune confessioni.

La previsione di uno strumento pianificatorio ulteriore [40], della cui utilità potrebbe forse dubitarsi posto che questo tipo di edilizia trovava già una sua regolamentazione nella disciplina urbanistica generale [41], aggrava il percorso necessario per la realizzazione di qualsiasi forma di edilizia di culto. Così, può dirsi quanto alle significative infrastrutture di supporto, che gravano i richiedenti di considerevoli oneri finanziari, posto che viene loro richiesto di realizzare o adeguare, a proprie spese, strade di collegamento «adeguatamente dimensionate» se assenti o inadeguate, opere di urbanizzazione primaria, parcheggi, un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, in grado di monitorare ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine [42]. Peraltro, la previsione di criteri di dettaglio, non sempre coerenti con l’ambito della pianificazione [43], non soltanto potrebbe generare dei problemi in sede applicativa, ma anche dare vita ad una irragionevolezza della normativa.

Analogamente, è problematica la richiesta della «congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto» rispetto alle «caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo», così come individuate nel Piano territoriale regionale. Non soltanto si tratta di requisiti generici e di difficile applicazione, soprattutto in un territorio morfologicamente assai vario come quello lombardo: infatti, essi presuppongono anche una univocità di visioni circa elementi che invece presentano caratteristiche subiettive e che si pongono comunque quale ulteriore passaggio nel procedimento per realizzare edilizia di culto.

Anche la disposizione per cui la nuova normativa non si applica alle attrezzature religiose esistenti alla entrata in vigore della legge, oltre ad avere un carattere pleonastico [44], profila il dubbio di generare effetti indirettamente (ma intrinsecamente) discriminatori, perché pone su piani differenti le confessioni che già possono contare su un’ampia rete di strutture adibite al culto e quelle che invece sono di più recente insediamento sul territorio lombardo.

La stessa necessità di sottoscrivere la Convenzione con il Comune si pone quale aggravio del procedimento (elemento che peraltro pesa in termini profondamente differenti sui diversi culti), così come la previsione di passaggi consultivi [45] che determina un deciso allungamento dei tempi di realizzazione, anche in presenza di una volontà da parte dell’amministrazione comunale di autorizzare la realizzazione di nuovi edifici di culto.

3.3.3. Il profilo della discriminazione indiretta

Al di là delle considerazioni che possono essere tratte dalla espressa formulazione dalla modifica normativa, va comunque tenuto conto di come simili previsioni impatteranno in modo profondamente diverso sulle diverse confessioni, addirittura giungendo all’esito di impedire, in alcuni casi, l’esercizio del diritto collettivo di libertà religiosa.

Neppure può apparire secondario che ad esserne maggiormente penalizzata sarà in particolare la religione islamica, su cui recentemente si è appuntato il dibattito politico regionale che ha palesato il contrasto fra il Comune capoluogo, intenzionato ad autorizzare la realizzazione di un luogo di culto islamico, e la Regione, intenzionata a bloccare questa iniziativa in nome della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza interna [46].

Tuttavia, il fatto che una normativa su un tema costituzionalmente sensibile come la libertà religiosa ponga una confessione in una posizione decisamente deteriore, non può che essere individuato come in conflitto con la libertà di manifestazione religiosa che la Costituzione riconosce e fa propria (art. 8 e 19) [47].

Va sottolineato che questa modifica renderà comunque assai più complessa, la realizzazione di edifici di culto destinati a religioni diverse da quella cattolica nei centri urbani, posta la richiesta di infrastrutture di supporto significative che difficilmente potranno trovare spazio, anche nel senso di spazio fisico, nel tessuto urbano dei centri cittadini lombardi già ampiamente urbanizzati.

Se pure il divieto di discriminazione sulla base della religione e delle convinzioni personali, è stato espressamente introdotto nell’ordinamento interno soltanto in ambito lavorativo [48], non si può disconoscere il portato dell’art. 3 Cost. che non consentirebbe alcuna interpretazione volta alla creazione di un doppio binario tracciato sulla base dell’appartenenza ad una religione.

Nondimeno, se la normativa europea vieta le discriminazioni sulla base della religione soltanto nell’ambito lavorativo, va però ricordata la Direttiva che tutela contro le discriminazioni sulla base della “razza” e dell’origine etnica (Dir. 43 del 2000). Certamente applicabile al caso concreto, posto che i professanti la religione islamica rappresentano una minoranza tutelata [49], questa direttiva copre anche la materia dell’accesso ai servizi e dunque potrebbe rientrarvi intendendo l’edilizia religiosa come deputata alla fornitura di un servizio [50].

Dovendosi ricondurre la questione in chiave di bilanciamento fra diritti e interessi potenzialmente contrapposti, va richiamata la posizione di chi ha individuato una sorta di “duplice anima” della normativa sull’edilizia di culto, «in bilico tra esercizio della libertà religiosa e rispetto della normativa urbanistica» [51]. Peraltro, la libertà religiosa si collega, in maniera inscindibile, alla parità di trattamento e alla garanzia di pari dignità ed «entra necessariamente in relazione con altre libertà connesse al pluralismo delle idee (si pensi, ad esempio, alla libertà di manifestazione del pensiero, alla libertà artistica, alla libertà di coscienza); così come spesso si esercita attraverso la fruizione di altri diritti costituzionali: come la libertà di riunione…, la libertà di comunicazione» [52].

Più concretamente, è da segnalare come il tema venga connesso a questioni legate alla sicurezza, alla tutela dell’ordine pubblico, al contrasto a fenomeni di terrorismo internazionale, quasi contrapponendosi all’esercizio della libertà religiosa.

È però tutta da dimostrare la connessione del regime urbanistico per gli edifici di culto rispetto con la sicurezza e l’ordine pubblico o con il contrasto al terrorismo, certamente meritevoli di interesse anche da parte del legislatore regionale, fermo restando il rispetto del riparto di competenze Stato-Regione.

Va però criticamente segnalato il potenziale stigmatizzante che la normativa sottintende, posto l’abbinamento che implicitamente fa proprio fra professione di una religione e compimento di atti con finalità di terrorismo internazionale o potenzialmente lesivi dell’ordine pubblico.

Peraltro, non è stato considerato che il semplice timore che alcuni luoghi di culto possano essere lo spazio in cui si propagano fenomeni legati al terrorismo internazionale ha condotto all’aggravio del procedimento per la realizzazione di tutte le opere di edilizia di culto, oltretutto ponendo i diversi culti in posizione profondamente differente.

La non congruità del mezzo al fine mostra un difetto di ragionevolezza dell’atto che determina una non giustificata compressione di un diritto fondamentale come quello al libero esercizio della libertà religiosa che si esprime anche potendo fruire di un luogo in cui esercitare il proprio culto. In questo senso, appare netto il profilo discriminatorio.

Ad ogni modo, anche quando si volesse ritenere congruo il mezzo rispetto al fine perseguito è la valutazione della proporzionalità che lascia emergere come potesse essere utilizzato uno strumento meno invasivo e “costoso” nei termini di compressione dell’interesse o del diritto concorrente. Anche perché diversamente ragionando si arriverebbe a consentire un sacrificio totale della libertà religiosa a fronte di un non ben precisato interesse alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico e al contrasto al terrorismo internazionale.

Piuttosto, si potrebbe supporre che sia la mancata regolazione, in termini ragionevoli, a generare situazioni di illegalità, in quanto costringe le persone ad esercitare il proprio culto in luoghi improvvisati e a ciò non deputati, con deboli possibilità di controllo da parte dell’autorità pubblica.

3.3.4. Minoranza vs. maggioranza

Vi è un ulteriore elemento di cui tenere conto in una riflessione sulla normativa de qua, in particolare, rispetto al conflitto che sembra prefigurare fra “maggioranza” e “minoranza” di persone.

Dato per assodato che la questione su cui la legge interviene impatterà in modo diverso e deteriore su una minoranza di persone, ossia quelle professanti una religione diversa da quella statisticamente prevalente (ossia quella cattolica), solleva più di un dubbio il subordinare la realizzazione di edifici di culto alle esigenze locali [53], profilo che non tiene conto del fatto che ci si riferisce a minoranze religiose. Come è stato efficacemente ricordato, infatti, «la tutela del sentimento religioso deve prescindere da dati statistici o da elementi quantitativi – come la diffusione numerica nella società di una determinata religione – e garantire tanto le posizioni minoranza, quanto quelle maggioritarie» [54].

È anche da stigmatizzare l’aver previsto la possibilità per i Comuni di indire referendum che peraltro, nella prima stesura dell’atto, era addirittura un obbligo da eseguire sempre e comunque [55].

La questione non è secondaria, posto che appare un controsenso sottoporre i diritti della minoranza al voto popolare, alla luce dell’area di intangibilità che alcune questioni, proprio perché riguardano i diritti di una minoranza numerica dotata di scarsa rappresentatività, dovrebbero avere. Il legislatore regionale sembra ignorare il potenziale antiegemonico che la tutela dei diritti delle minoranze porta con sé, in chiave di “sovversione” dello status quo che ha reso possibile una discriminazione.

La criticità sollevata non va però intesa nel senso di sollevare dubbi sul sistema di democrazia diretta, ma si fonda piuttosto sul principio – non scritto ma ugualmente imprescindibile – per cui i diritti di una minoranza (numericamente parlando) di persone, laddove riguardino diritti costituzionalmente tutelati, non possono essere subordinati al voto della maggioranza di persone. Questa riflessione è ancor più rafforzata considerando come molte delle persone interessate dalla realizzazione degli edifici di culto di cui si discute, non potrebbero forse neppure partecipare al referendum indetto o perché non residenti nel Comune interessato o perché non cittadini [56].

Peraltro, appare evidente che l’edificio di culto eventualmente realizzato potrebbe nonv essere a supporto della sola popolazione residente; dunque porre il potere di limitare l’edificazione in mano ai cittadini residenti pare ancor più un controsenso.

3.3.5. L’impatto della modifica normativa sul piano simbolico

Va ammesso che concedere l’edificazione di strutture dedicate al culto soltanto a fronte di una presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e a un significativo insediamento su un territorio è un criterio di dubbia ragionevolezza. Infatti, gli edifici religiosi dei quali si discute certamente non avrebbero un bacino di utenza relativo al solo Comune al cui interno sarebbero edificati.

Anche la richiesta di pareri da parte di «organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura» è problematica. Infatti, implicitamente sembra presupporre che gli interessi, costituzionalmente tutelati, all’esercizio della libertà religiosa, possano essere soggetti ad un placet da parte di terze persone, variamente caratterizzate, non direttamente interessate alla questione e in assenza di ragioni di sorta. Infatti, l’obiettivo è di «valutare possibili profili di sicurezza pubblica», ma se ciò può apparire congruo rispetto alle attività dei citati esponenti delle forze dell’ordine, oltre a questura e prefettura, molto più sfuggente appare il legame con le “organizzazioni” e i “comitati di cittadini” che non necessariamente avranno contezza di simili delicate questioni.

Quest’ultimo inciso peraltro è problematico nella misura in cui implicitamente abbina religione e sicurezza, a prescindere non solo da qualsiasi riferimento concreto, ma anche dall’esistenza di motivazioni realmente fondate e dimostrate. Sulla stessa scia, si situa anche l’obbligo di posizionare un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine, anch’esso orientato nel tracciare un legame stretto e univoco fra sicurezza ed esercizio della libertà religiosa.

In generale, emerge con evidenza come l’elemento culturale e religioso, riconosciuto come importante fattore di aggregazione collettiva, venga interpretato, ex se, quale potenziale fonte di pericolo per la sicurezza, legittimando de plano uno speciale potere di controllo in capo agli organi deputati alla pianificazione del territorio e poteri di veto in capo a cittadini, organizzazioni, rappresentanti delle forze dell’ordine.

Anche la previsione di “distanze adeguate” tra le aree e gli edifici da destinare alle diverse confessioni religiose [57], così come la richiesta di significative infrastrutture di supporto producono effetti, impliciti ma inesorabili, rispetto alla collocazione territoriale dei centri di culto. Infatti, ben difficilmente nei centri dei comuni sarebbe possibile rispettare questo criterio, per cui vi è da supporre che le aree saranno sempre individuate in zone periferiche.

A livello simbolico, l’effetto che ne deriverà sarà quello di introdurre una ulteriore cesura fisica oltre che ideale, fra luoghi di culto di alcune confessioni e le realtà cittadine che li accolgono. Sorprende, peraltro, che le pure significative criticità già sollevate in fase istruttoria dal servizio legislativo del Consiglio regionale, non siano state considerate nella stesura definitiva del testo di legge, lasciando una serie di profili di conflittualità con le disposizioni costituzionali [58].

Questa generale contrarietà alla realizzazione di edifici di culto non cattolico potrebbe essere intesa come espressiva di quella che è stata definita come «politica della purezza» [59] etnica e religiosa che senza dubbio crea una frizione con i valori fondanti la nostra Carta costituzionale [60].

3.3.6. Il carattere pervasivo dei controlli sugli edifici di culto

La recente modifica normativa si caratterizza altresì per accentuare il già presente e pressante potere di controllo da parte della pubblica autorità sull’edilizia religiosa, in particolare di alcuni culti.

Già nella sua struttura originaria, la legge lombarda prevedeva la necessità di sottoscrivere una Convenzione tra il Comune in cui si voleva dare vita al luogo di culto e la confessione, sulla cui legittimità erano stati sollevati dubbi consistenti in quanto apparente ri-proposizione del requisito della stipula di un’“intesa” con lo Stato, previsto dalla precedente legge regionale in materia di edilizia di culto [61], dichiarata incostituzionale [62].

Sembrando quasi inconsapevole del potenziale di incostituzionalità della modifica normativa [63], il legislatore regionale ha ritenuto di introdurre questo nuovo e penetrante filtro. La Convenzione richiesta quale pre-requisito, infatti, si presta ad una forma di controllo assai invasiva da parte dell’amministrazione comunale, sotto almeno due punti di vista: non soltanto amplia gli spazi di discrezionalità della pubblica amministrazione nell’ammettere o meno una confessione quale controparte di una Convenzione, ma anche «consente un controllo e un’ingerenza penetranti nell’organizzazione della confessione interessata, che può tradursi in una specifica regolamentazione, contenuta nell’accordo, sulle modalità di svolgimento del culto negli edifici a esso destinati» [64].

La forzatura – su cui si era già espressa la giurisprudenza che l’aveva applicata in termini restrittivi [65] – emerge nella misura in cui si richiede la sottoscrizione della Convenzione non soltanto per la realizzazione di opere con contributi pubblici, ma per la realizzazione tout court di edilizia di culto, dunque per qualunque struttura, anche se realizzata con contributi interamente privati.

Una più corretta formulazione legislativa avrebbe forse dovuto suggerire di posticipare la fase di controllo e verifica in sede di assegnazione dei contributi pubblici, non invece per la realizzazione, eventualmente tenendo conto della consistenza e incidenza sociale della confessione. Al contrario, la previsione di un criterio selettivo ab origine si profila come una barriera alla libertà di professare un culto, che è garantita nella sua pienezza dall’art. 19 Cost., fatto salvo il solo limite della contrarietà dei riti al buon costume. Quest’ultimo, peraltro – da intendersi come violato solo da quei riti che configgono con le «regole di condotta che la società normalmente esige siano rispettate nel campo del pudore sessuale» [66] – andrebbe sempre e comunque verificato nel concreto, non potendo essere evocato in maniera apodittica e non circostanziata.

In questa direzione, infatti, si è collocata la lettura del combinato disposto con l’art. 17 Cost., sulla libertà di riunione che «esclude da ogni controllo preventivo le riunioni, anche a scopo religioso, svolte sia in luogo privato che in luogo aperto al pubblico … mentre dispone per le sole riunioni in luogo pubblico… una forma attenuata di controllo quale è il preavviso all’autorità di pubblica sicurezza, che può vietarle unicamente per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica» [67].

Anche l’obbligo, imposto per legge, di prevedere espressamente nella Convenzione fra il Comune e la confessione, la possibilità di risoluzione o revoca, in caso di positivo accertamento circa attività non previste nella Convenzione [68] rafforza il controllo cui è sottoposto l’esercizio di un culto.

Peraltro, non dovrebbe essere sottovalutato l’implicito contenuto in questa disposizione che, per come è stata redatta, dà per assodato che debba necessariamente esservi un’attività di accertamento da parte del Comune circa lo svolgimento di attività non previste nella Convenzione. Più di un dubbio sorge sulla legittimità di simile divieto, posto che la libertà religiosa può esprimersi anche attraverso attività di natura non strettamente religiosa, ma ad esempio culturale. A non poter essere condivisa è l’espressa formulazione normativa che sembra profilare alcune implicite finalità, in particolare in riferimento ai recenti fenomeni di terrorismo internazionale di matrice islamica che sembrerebbero aver trovato un focolaio all’interno di centri religiosi. Tuttavia, è importante verificare se, e fino a che punto, sia legittima una norma che sempre e comunque imponga verifiche e controlli ex ante, implicitamente presupponendo l’illecito svolgimento di attività ultronee a quelle religiose e la loro finalizzazione a fenomeni legati al terrorismo, all’interno dei centri di culto. Al di là della non fondatezza del presupposto implicitamente assunto e ritenuto valido per ogni tipo di centro ed edificio di culto, a dover essere ribadito è anche il potenziale simbolico che ne emerge criticamente. Infatti, questa norma in qualche modo propala l’idea che all’interno di centri religiosi islamici si svolgano attività contigue con fenomeni criminali, assunto dato per scontato ma non dimostrato, né probabilmente valido per tutti i centri religiosi.

3.3.7. L’impatto sull’autonomia degli enti locali

Un aspetto, forse non marginale, della nuova normativa è relativo al potenziale intrinseco di compressione dell’autonomia dei comuni. Si pensi, ad esempio, al termine dei diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale assegnato ai Comuni per adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose, decorso il quale lo stesso dovrà necessariamente essere approvato unitamente al nuovo PGT. L’attività di pianificazione urbanistica, infatti, è uno degli elementi in cui si esprime l’autonomia dell’ente locale, per cui appare di dubbia legittimità l’intromissione regionale nei termini descritti sopra. L’aver previsto passaggi consultivi necessari (e sulla cui efficacia vincolante restano dubbi) sembra frapporre un limite all’autonomia dell’ente comunale nell’esercizio di una propria competenza. Analogamente, quanto alle verifiche che sembrano imposte per legge: posto che la Convenzione è un atto amministrativo con il quale l’amministrazione pubblica stipula un accordo con un soggetto privato, collocandosi sul medesimo piano, anche in questo caso ci si dovrebbe porre l’interrogativo se sia legittima l’imposizione, da parte della Regione, di un limite all’autonomia negoziale dell’ente locale e l’imposizione, sempre e comunque, di controlli ai Comuni.

Inoltre, la norma ha di fatto interdetto al Comune di autorizzare opere di edilizia religiosa, per un significativo lasso di tempo, posto il percorso complesso che questi strumenti urbanistici necessariamente richiedono.

Da ultimo, anche l’obbligo di prevedere alcuni contenuti della Convenzione si pone quale vulnus all’autonomia negoziale dell’ente, in quanto dovrebbe invece rappresentare l’espressione più piena della discrezionalità dell’amministrazione [69].

4. Brevi considerazioni conclusive

Al di là dei profili evidenziati, la modifica legislativa si caratterizza per un problema di drafting legislativo, quanto alla (im)precisione terminologica utilizzata, posto che opera continui riferimenti a descrizioni non solo confuse e approssimative [70], ma soprattutto subiettivamente caratterizzate [71] che non potranno che generare dubbi in sede applicativa.

Inoltre, vale ricordare come il provvedimento qui richiamato leda anche la libertà nell’esercizio del potere spirituale garantita dalla Costituzione a tutte le Chiese, che devono poter decidere autonomamente come gestire i rapporti con i fedeli propri e di altre fedi, aspetto pure richiamato da un parere del Consiglio di Stato circa la religione cattolica [72].

In conclusione, appare problematica la visione che sembra scorrere sotterranea al testo normativo approvato dalla Regione Lombardia e che “piega” con finalità ultronee, una normativa del settore urbanistico. Questo approccio trova peraltro numerosi precedenti, sia a livello normativo [73], sia a livello municipale, con lo strumento delle ordinanze sindacali di necessità e di urgenza, utilizzato per vietare comportamenti propri di una minoranza di persone o che comunque si intendeva scoraggiare [74].

Posta la delicatezza degli interessi in gioco, un più attento bilanciamento fra i contrapposti diritti e interessi, sarebbe stato certamente più consigliabile nel redigere una normativa che, nel disciplinare l’urbanistica, interessa e con forza la libertà religiosa e l’uguaglianza.

Non è un caso che, nella vulgata, la modifica legislativa apportata sia stata salutata come “legge antimoschee” [75] alla luce delle sensibili difficoltà che arreca ad alcuni culti in particolare, fra cui certamente quello islamico.

Il problema dell’arbitrio e del confine rispetto alla discrezionalità obbliga, infine, ad un raffronto rispetto alla mobilità della soglia di sicurezza o insicurezza che potrebbe determinare in astratto l’impedimento alla professione di un culto in quanto (percepito come) potenzialmente lesivo della sicurezza. Tuttavia, va ribadita la necessità di un evidente nesso di causa-effetto fra le prescrizioni introdotte e l’obiettivo implicitamente fatto proprio dalla normativa. Piuttosto che di una compressione dell’espressione della libertà religiosa, a vantaggio della sicurezza, la tendenza mostrata dalla legge lombarda sembrerebbe quella di privilegiare alcune religioni o meglio di svantaggiarne altre, una in particolare, comprimendo così le molteplici differenti possibili espressioni della libertà religiosa, con la creazione di norme che impattano diversamente a seconda dell’appartenenza ad una confessione.

La pericolosità di tale modus operandi è piuttosto evidente, venendosi a determinare l’astrazione dalle categorie giuridiche tradizionali e piegando il diritto ad essere risposta ad obiettivi politici, della cui compatibilità a costituzione è più che legittimo dubitare.

È da ritenere che, per i numerosi profili critici evidenziati, la Corte costituzionale non mancherà di annullare la legge lombarda, accogliendo il ricorso presentato dal Governo per contrasto con gli artt. 3, 8, 19, 117 co. 1, 117 co. 1 lett. a), c), h), l), 118, co. 3.

** Assegnista di ricerca, Università di Bergamo
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* Scritto sottoposto a referee.

[1] L.r. Lombardia 9 maggio 1992, n. 20, dichiarata incostituzionale con la sentenza Corte cost. 346/2002. La Corte costituzionale peraltro si era già espressa nello stesso senso con la pronuncia 195/1993, a proposito della l.r. Abruzzo, 16 marzo 1988, n. 29. Per un commento sulle pronunce, v. L. D’ANDREA, Eguale libertà ed interesse alle intese delle confessioni religiose: brevi note a margine delle sentenza costituzionale n. 346/2002, in Quad. dir. pol. eccl., 2003, 3, 667; G.P. PAROLIN, Edilizia di culto e legislazione regionale nella giurisprudenza costituzionale: dalla sentenza 195/1993 alla sentenza 346/2002, in Giurisprudenza italiana, 2003, 351 ss.

[2] Art. 70-73, l.r. Lombardia, n. 12/2005, su cui v. A. FOSSATI, Manuale di diritto urbanistico e dell’edilizia della Regione Lombardia, Torino, Giappichelli, 2013, 139 e ss. La legge definiva gli enti legittimati a presentare istanza per avere in concessione aree pubbliche destinate alla realizzazione di attrezzature religiose e per ricevere contributi comunali a ciò finalizzati. V. S. TROILO, Le nuove frontiere della libertà religiosa tra pluralismo sociale e pluralismo Istituzionale. Il Ruolo Delle Regioni, Roma, Aracne, 2014, 187, che ricorda come l’espressione “attrezzature religiose” sia stata adottata per la prima volta dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 che, all’art. 3, comprende espressamente tali “attrezzature” tra quelle cd. di interesse comune. V. A.L. COLOMBO, Le attrezzature di culto e di religione e la loro collocazione nel diritto urbanistico italiano, in AA.VV., Gli enti istituzionalmente competenti del servizio religioso di fronte al diritto urbanistico italiano, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 107 ss.; I. BOLGIANI, Attrezzature religiose e pianificazione urbanistica: luci ed ombre, in www.statoechiese.it, 2013, 12. Per una ricostruzione del tema, nella prospettiva storica precostituzionale e nel dibattito costituente, v. M. CROCE, La libertà religiosa nell’ordinamento costituzionale italiano, Pisa, ETS, 2012, 38 ss.

[3] Proprio sull’inconsistenza del requisito della diffusione quale discrimen per qualificare un’organizzazione come religiosa, si era espressa la Corte costituzionale con la pronuncia 195/1993, a proposito della l.r. Abruzzo 29/1988.

[4] Si tratta di un allegato al Piano di governo del territorio, strumento urbanistico che, dal 2005, sostituisce in Lombardia il Piano Regolatore Comunale.

[5] N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia sull’edilizia di culto alla prova della giurisprudenza amministrativa, www.statoechiese.it, 2014, 12, che riporta ampiamente gli sviluppi della giurisprudenza amministrativa e il dibattito sul punto.

[6] Come ricorda, N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia, cit., anche l’inerzia dell’amministrazione comunale nell’approvare il Piano dei Servizi avrebbe significato implicitamente il blocco totale di qualsiasi attività di insediamento di nuovi edifici di culto.

[7] Con legge regionale n. 12 del 2006, era stato inserito l’obbligo del permesso di costruire anche per i mutamenti di destinazione d’uso degli immobili finalizzati alla creazione di luoghi di culto e destinati a centri sociali, anche se non comportanti la realizzazione di opere edilizie (art. 52, co. 3-bis, l.r.). Successivamente, con la legge regionale n. 4 del 2008, erano state introdotte misure restrittive circa la realizzazione di nuove attrezzature per i servizi religiosi (art. 72.4-bis, l.r.). N. MARCHEI, Gli edifici dei “culti ammessi”: una proposta di legge coacervo di incostituzionalità, in Quad. dir. pol. eccl., 2010, 1, 107 ss. Infine, con la legge regionale n. 3 del 2011, anche «gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali» sono stati inseriti tra le attrezzature per i servizi religiosi la cui realizzazione è disciplinata dagli artt. 70 e ss. della legge 12/2005 (art. 71, co. 1, lett. c)-bis). Questa modifica è stata ricondotta all’elemento fattuale per cui, in assenza di disponibilità di spazi, non era infrequente che la “realizzazione” de facto di edifici di culto avvenisse mediante la modifica della destinazione d’uso degli edifici.

[8] N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia, cit.

[9] Si veda l’ampia disamina e i riferimenti contenuti in N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia, cit., cui si rinvia.

[10] Così, T.A.R. Lombardia, sez. Brescia, 3522/2010. Si veda però la posizione restrittiva del Consiglio di Stato che in più occasioni ha riformato le pronunce di primo grado. Ad esempio, ha ritenuto necessario il rispetto della normativa di settore limite invalicabile anche per il libero esercizio del culto. Così, Consiglio Stato, sez. IV, 27.10.2010, n. 8298 che riforma T.A.R. Lombardia, 28.12.2009, n. 6226, in materia di cambio di destinazione d’uso. Per una analisi del rilievo del giudice in chiave di tutela delle minoranze religiose, v. A. GUAZZAROTTI, Giudice e minoranze religiose, Milano, Giuffré, 2001.

[11] L.r. 3 febbraio 2015 , n. 2, che reca «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi».

[12] Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, l.r. Lombardia 12/2005.

[13] In sigla, PGT. Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 3, l.r. Lombardia 12/2005.

[14] Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 2, l.r. Lombardia 12/2005.

[15] Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 4, l.r. Lombardia 12/2005, che fa salva l’autonomia degli organi statali.

[16] Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 5, l.r. Lombardia 12/2005.

[17] Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 4, l.r. Lombardia 12/2005.

[18] Si precisa poi che Il Piano delle attrezzature religiose sovracomunale costituisce parte del Piano dei Servizi dei singoli Comuni che hanno aderito alla convenzione di cui sopra. Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 6, l.r. Lombardia 12/2005.

[19] Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 7, l.r. Lombardia 12/2005.

[2] Questo deve essere collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine.

[21] In sigla, VAS. Così, l’art. 1, lett. a) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 4, co. 2, l.r. Lombardia 12/2005. La VAS è un processo finalizzato ad integrare considerazioni di natura ambientale – prima della loro approvazione (ex ante), durante e al termine del loro periodo di validità (in-itinere, ex post) – nei piani e nei programmi di sviluppo di qualsiasi livello, per migliorare la qualità decisionale complessiva. Gli obiettivi ambientali vengono così integrati in ogni attività di programmazione e pianificazione. Il procedimento di approvazione della VAS è piuttosto articolato e complesso e richiede un lasso di tempo variabile ma indicativamente quantificabile in un anno solare. La disciplina è contenuta nel cd. Codice dell’Ambiente, D. lgs. n. 152/2006, artt. 5, ss.

[22] Nelle «Osservazioni al subemendamento al PDL 195 “Modifiche alla l.r. 12/2005. Principi per la pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi» (20.1.2015, Prat. 4268), l’ufficio legislativo aveva infatti sottolineato l’assenza di evidenti profili riconducibili a temi ambientali, aprendo forse la via ad un dubbio di ragionevolezza della normativa.

[23] Ci si riferisce infatti a quelle con cui lo Stato ha già approvato l’intesa mediante legge e secondo quanto previsto dall’art. 8, co. 3, Cost., sia alle altre qualora abbiano, oltre ai requisiti di presenza diffusa, organizzata e consistente (che sostituisce il pre-esistente requisito della stabilità) sul territorio anche un significativo insediamento nell'ambito del comune nel quale vengono effettuati gli interventi e statuti che «esprimono il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione». Così l’art. 1, lett. b) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 70, l.r. Lombardia 12/2005, aggiungendo il co. 2-bis.

[24] Così l’art. 1, lett. b) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 70, co. 2, l.r. Lombardia 12/2005.

[25] Così l’art. 1, lett. b) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 70, l.r. Lombardia 12/2005, aggiungendo il co. 2-ter.

[26] Così l’art. 1, lett. b) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 70, l.r. Lombardia 12/2005, aggiungendo il co. 2- quater.

[27] V. S. TROILO, Le nuove frontiere della libertà religiosa, cit.; M. CROCE, La libertà religiosa, cit.

[28] S. TROILO, Le nuove frontiere della libertà religiosa, cit., 187, che richiama la copiosa dottrina sul punto: v., ex multis, L. ZANNOTTI, Stato sociale, edilizia di culto e pluralismo religioso, Milano, Giuffrè, 1990; F. ZANCHINI DI CASTIGLIONCHIO, Edifici di culto, in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1996, l ss.; V. TOZZI, Edifici di culto e legislazione urbanistica, in Dig. disc. pubbl., vol. V, Torino, 1990, 385 ss.; D. PERSANO (a cura di), Gli edifici di culto tra Stato e confessioni religiose, Milano, Vita e Pensiero, 2008; G. CASUSCELLI, Il diritto alla moschea, lo Statuto lombardo e le politiche comunali: le incognite del federalismo, in www.statoechiese.it, 2009, pp. 1 ss. Dal punto di vista canonistico v. C. REDAELLI, L’ordinamento italiano e la costruzione di una nuova chiesa, in Quad. dir. eccl., 2000, 268 ss. M. CROCE, La libertà religiosa, cit., 102 ss. N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia, cit.; E. CECCHERINI (a cura di), Pluralismo religioso e libertà di coscienza, Milano, Giuffré, 2012; P.A. D’AVACK, Libertà religiosa, (dir. eccl.), in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 598.

[29] Com’è noto, l’art. 19 Cost. garantisce il diritto di esercitare il culto che si professa, in privato o in pubblico o all’interno di una confessione religiosa, con il solo limite espresso della contrarietà dei riti al buon costume.

[30] Ad esempio, mediante la necessità di una Convenzione con il Comune e la verifica dei requisiti statutari della confessione rimessa alla Consulta regionale; così, anche la previsione che consente ai Comuni di indire un referendum e dunque di sottoporre la realizzazione di edifici di culto al volere della maggioranza degli aventi diritto al voto.

[31] S. TROILO, Le nuove frontiere della libertà religiosa, cit., 187-188, ricorda che la legislazione regionale si è sostanzialmente assestata lungo due direttrici, ossia le loro modalità di individuazione delle aree da destinare ad attrezzature religiose e le previsioni finanziarie e relative alla costruzione e/o manutenzione.

[32] Art. 117, co. 2, lett. c) Cost.

[33] Così, artt. 10, 17, 19 TFUE; artt. 10, 21 e 22 della Carta di Nizza; oltre ad una serie di documenti internazionali, fra cui si veda il Patto internazionale sui diritti civili e politici, così come interpretato dal Comitato Diritti umani della Nazioni Unite.

[34] Art. 117, co. 2, lett. h).

[35] Art. 118, co. 3.

[36] Il D.M. Lavori pubblici, 1444/1968 (art. 3) fissa una dotazione minima inderogabile di aree per abitante da destinare a spazi pubblici o riservati alle attività collettive, tra cui certamente rientrano le attrezzature religiose. Sul tema, v. I. BOLGIANI, Attrezzature religiose e pianificazione urbanistica, cit.

[37] Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 3, l.r. Lombardia 12/2005.

[3] Sarebbe anche interessante una verifica sulla “natura” della Consulta regionale, rispetto alle sue attribuzioni, ad esempio, quanto alla composizione, alle modalità di nomina (se di nomina politica, tecnica, mista), alla sua durata, alle modalità di funzionamento. Tuttavia, a quanto consta, la Giunta regionale lombarda non ha ancora approvato l’atto di costituzione.

[39] L. FERRAJOLI, La questione dell’embrione tra diritto e morale, in Politeia, 65, 2002

[40] Ci si riferisce al Piano delle attrezzature religiose.

[41] S. TROILO, Le nuove frontiere della libertà religiosa, cit., 187, ricorda infatti che già la legge urbanistica del 1942 obbligava ad inserire nei piani regolatori comunali apposite aree da riservare a sede di chiese, scuole ed altri «impianti d’interesse pubblico in generale»; così, anche la successiva legge n. 865 del 1971 includeva espressamente «chiese ed altri edifici religiosi», tra le opere di urbanizzazione secondaria.

[42] Così v. il riformato art. 72, co. 7, l.r. Lombardia 12/2005.

[43] Si pensi, ad esempio, alla richiesta di dotare le strutture con impianti di video sorveglianza o di servizi igienici, che certamente esulano dall’ambito pianificatorio.

[44] Infatti, la legge dispone per l’avvenire.

[45] Così ad es. la previsione di distanze “adeguate”, la valutazione circa la congruità al paesaggio.

[46] Si vedano, ad esempio, gli articoli pubblicati su Il Giornale, il 7 ottobre 2014.

[47] Ma anche rispetto all’impianto sovranazionale, v. art. 9 della Convenzione europea dei diritti umani - così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, art. 10 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cd. Carta di Nizza), art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani.

[48] Con il recepimento della Direttiva 2000/78 del Consiglio del 27 novembre 2000 che «stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», ad opera del D. Lgs. 216/2003, rubricata «Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro».

[49] Infatti, statisticamente, i professanti religioni minoritarie sono in maggioranza appartenenti ad una “razza” e “origine etnica”. Si ricordi però quanto espressamente dichiarato nel Considerando 6, della Dir. 2000/43, secondo cui «L’Unione europea respinge le teorie che tentano di dimostrare l’esistenza di razze umane distinte. L’uso del termine “razza” nella presente direttiva non implica l'accettazione di siffatte teorie».

[50] Peraltro è previsto che «Gli Stati membri prendono le misure necessarie per assicurare che tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative contrarie al principio della parità di trattamento siano abrogate» (art. 14).

[51] N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia, cit.

[52] G. ROLLA, La libertà religiosa in un contesto multiculturale, in E. CECCHERINI, (a cura di), Pluralismo religioso e libertà di coscienza, cit., 100.

[53] Sotto questo profilo, la dizione normativa era analoga anche nella pre-vigente versione.

[54] G. ROLLA, La libertà religiosa in un contesto multiculturale, cit., 113 che richiama la sentenza della Corte costituzionale 329 del 1997 sul vilipendio della religione cattolica.

[55] Su questa disposizione, si erano appuntate le criticità sollevate dall’ufficio legislativo regionale, rispetto a cui v. «Parere in merito alle legittimità del PDL 195 recante modifiche alla l.r. 11 marzo 2005, n. 12 in tema di realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi», elaborato dall’ufficio legislativo del Consiglio regionale della Regione Lombardia (28.10.2014, pv 4272).

[56] Statisticamente, infatti, i professanti culti religiosi non cattolici sono in maggioranza cittadini non italiani.

[57] Così l’art. 1, lett. c) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 72, co. 7, l.r. Lombardia 12/2005.

[58] Si vedano il «Parere in merito alle legittimità del PDL 195 recante modifiche alla l.r. 11 marzo 2005, n. 12 in tema di realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi», elaborato dall’ufficio legislativo del Consiglio regionale della Regione Lombardia (28.10.2014, pv 4272), le successive «Osservazioni in merito all’emendamento al PDL 195 recante modifiche alla l.r. 11 marzo 2005, n. 12 “Principi per la Pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi”» (17.12.2014, pv 4272), e da ultimo, le «Osservazioni in merito al subemendamento al pdl 195 «Modifiche alla l.r. 12/2005. Principi per la pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi» (20.1.2015, prat. 4268).

[59] G.E. RUSCONI, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Laterza, Bari, 1999, 15 ss.

[60] Per una analisi della questione, dalla prospettiva del pluralismo religioso e del multiculturalismo, v. E. CECCHERINI, Pluralismo religioso e pluralismo legale: un compromesso possibile, e G. ROLLA, La libertà religiosa in un contesto multiculturale, entrambi in E. CECCHERINI, (a cura di), Pluralismo religioso e libertà di coscienza, cit., rispettivamente pp. 1-79 e pp. 81-135; A. GUAZZAROTTI, Giudice e minoranze religiose, cit.

[61] Art. 1, l.r. Lombardia, 9 maggio 1992, n. 20.

[62] Corte cost., sent. 195 del 1993, sulla legge regionale Abruzzo. In realtà, la Corte è tornata in più occasioni sul punto, ritenendo che utilizzare il parametro dell’avvenuta stipula dell’intesa con lo Stato al fine di individuare le confessioni religiose destinatarie di benefici previsti da una legge unilaterale (nella fattispecie regionale) contrasta con gli artt. 3 e 8 Cost. Le intese infatti «non sono e non possono essere (…) una condizione imposta dai poteri pubblici alle confessioni per usufruire della libertà di organizzazione e di azione, loro garantita dal primo e dal secondo comma dello stesso art. 8, né per usufruire di norme di favore riguardanti le confessioni religiose». Si segnala che, ad oggi, hanno sottoscritto intese con lo Stato: Chiesa Cattolica, Assemblee di Dio in Italia (ADI); Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno; Tavola valdese; Chiesa Evangelica Luterana in Italia (CELI); Unione delle Comunità ebraiche italiane (UCEI); Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI); Sacra Arcidiocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l'Europa Meridionale; Chiesa Apostolica in Italia; Unione Buddhista Italiana (UBI); Unione Induista Italiana, Sanatana Dharma Samgha (UII). V. S. TROILO, Le nuove frontiere della libertà religiosa, cit., 189. V. anche M. CROCE, La libertà religiosa, cit., 187.

[63]) Peraltro, anche su questo punto, erano stati ampiamente sollevati dubbi dal servizio legislativo regionale, in sede di esame del progetto di legge, senza tuttavia che si sia ritenuto di dare seguito alle criticità segnalate. Si vedano in particolare, le «Osservazioni in merito al subemendamento al pdl 195 “Modifiche alla l.r. 12/2005. Principi per la pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi”» (20.1.2015, prat. 4268).

[64] Così sottolineava N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia, cit., già in riferimento al precedente impianto (p. 14).

[65] V. N. MARCHEI, La legge della Regione Lombardia, cit.

[66] S. TROILO, Le nuove frontiere della libertà religiosa, cit., 124, che richiama la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 368 del 1992) secondo cui il limite previsto è diretto «a significare un valore riferibile alla collettività in generale, nel senso che denota le condizioni essenziali che, in relazione ai contenuti morali e alle modalità di espressione del costume sessuale in un determinato momento storico, siano indispensabili per assicurare, sotto il profilo considerato, una convivenza sociale conforme ai principi costituzionali inviolabili della tutela della vita umana e del rispetto reciproco fra le persone». L’autore precisa ancora che si tratta di un limite che riguarda dunque specifici «riti, concretamente posti in essere» e idee e principi religiosi sostenuti e propagandati, sia pure anche per il culto debbano essere considerati gli ulteriori limiti presenti rispetto alla professione di fede ed alla propaganda religiosa, quali ad esempio, il rispetto dei diritti e delle libertà altrui (p. 125).
Si tratta peraltro di una posizione più che consolidata da parte della Consulta (v. Corte cost. 59/1958).

[67] S. TROILO, Le nuove frontiere della libertà religiosa, cit., 123.

[68] Così l’art. 1, lett. b) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 70, l.r. Lombardia 12/2005, aggiungendo il co. 2-ter.

[69] Così l’art. 1, lett. b) l. r. Lombardia 2/2015, che modifica l’art. 70, l.r. Lombardia 12/2005, aggiungendo il co. 2-ter.

[70] Oltre a quanto già segnalato (ad es. circa l’adeguatezza delle distanze e delle infrastrutture), si pensi all’accertamento, richiesto ai Comuni, circa generiche “attività non previste nella convenzione”.

[71] Così ad esempio la «congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo». Su questi profili, erano stati sollevati dubbi dall’ufficio legislativo regionale, nelle «Osservazioni in merito all’emendamento al PDL 195 recante modifiche alla l.r. 11 marzo 2005, n. 12 “Principi per la Pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi”» (17.12.2014, pv 4272).

[72] Il Concordato con la Santa Sede, sottoscritto dal Governo nell'anno 1929, prevede che «L’Italia … assicura alla Chiesa cattolica il libero esercizio del potere spirituale, il libero e pubblico esercizio del culto, nonché della sua giurisdizione in materia ecclesiastica» (art. 1, parte 4).

[73] Sottolinea il carattere discriminatorio della tecnica legislativa del legislatore nazionale e regionale, M. CROCE, La libertà religiosa, cit., 221, nel tratteggiare il diverso trattamento fra religione cattolica e religioni che hanno sottoscritto un’intesa e altre religioni. Di recente, si pensi al cd. “Pacchetto sicurezza”, non a caso oggetto di una pronuncia di incostituzionalità (Corte cost. 115/2011) o prima ancora alla l.r. Lombardia, 3 marzo 2006, n. 6 di disciplina dei phone center (dichiarata incostituzionale con sent. 350/2008). Sul punto, sia consentito un rinvio al mio La legge lombarda sui phone center: fra esigenze di sicurezza collettiva e diritti fondamentali, in S. LORENZON, G. VACCARI, V. ZANETTI (a cura di), Sicurezza collettiva e diritti fondamentali in tempo di terrorismo, Roma, Aracne, 2008, 233-245;

[74] Si tratta delle ordinanze ex art. 54, D. Lgs. 267/2000, T.u.e.l., modificato dalla l. 94/2009, cd. “Pacchetto Sicurezza”, su cui poi è intervenuta la Corte costituzionale, con la pronuncia 115/2011. Si veda il numero monografico della rivista Le Regioni, 1-2, 2010; A. LORENZETTI, Il difficile equilibrio fra diritti di libertà e diritto alla sicurezza, in A. LORENZETTI, S. ROSSI, Le Ordinanze sindacali in materia di incolumità pubblica e sicurezza urbana. Origini, contenuti, limiti, Jovene, Napoli, 2009.

[75] Così, ad esempio, La legge anti-moschee blocca tutti i culti, polemica in Lombardia, in La Stampa, 28 gennaio 2015; Lombardia, approvata la Legge anti-moschee: ecco tutte le norme. L'opposizione protesta, in Leggo, 28 gennaio 2015; Legge anti-moschee Lombardia, il governo la impugna. Maroni: “Ritorsione”, in Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2015; Islam, il governo impugna la legge 'anti moschee' del Pirellone. Maroni: “Da Renzi un'altra ritorsione”, in La Repubblica (sez. Milano), 12 marzo 2015; Roma impugna la legge lombarda anti-moschee, in Avvenire, 12 marzo 2015; Islam, il governo impugna la legge lombarda antimoschee, in Corriere della Sera, 13 marzo 2015.

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