Il ruolo del Ministero dell’interno negli “affari dei culti”

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Video dell'intervento della Dott.ssa Nelly Ippolito Macrina, Vice Prefetto, già direttore della divisione Affari dei Culti diversi dal Cattolico del Ministero dell’Interno, al Convegno Internazionale Diritto e libertà di credo in Europa, un cammino difficile, tenuto a Firenze il 18-19 gennaio 2018.

Il ruolo del Ministero dell’interno negli “affari dei culti”

Ringrazio prima di tutto FOB e tutti coloro che a vario titolo hanno consentito questa preziosa occasione di dialogo nella splendida cornice di questa sala.

Il tema sul quale mi accingo a fare qualche riflessione è il ruolo del Ministero dell’interno negli “affari dei culti” e penso che già solo questo titolo ponga qualche interrogativo: “affari dei culti”? perché questa espressione certamente non bella o quanto meno dal “sapore” lessicale arcaico? … Ma soprattutto: da quando e perché, di un ambito che riverbera sul delicato terreno dei diritti umani, si occupa il Ministero dell’interno? Non è questa un’ amministrazione deputata essenzialmente a garantire la sicurezza e l’ordine pubblico? E dei culti si è sempre occupato il Ministero dell’interno?

Effettivamente qualche precisazione va fatta perché è nel 1932 (lo ha ricordato ieri il professor Nocita) che le attribuzioni in materia di culti sono transitate dal Ministero della giustizia – Ministero della giustizia e dei culti, come allora si chiamava - a quello dell’interno e sicuramente tale mutato assetto amministrativo avvenne nell' intendimento di privilegiare strumenti di controllo sulle realtà diverse dalla cattolica. Il motivo di tale inversione di rotta? Certamente molto fu dovuto al Concordato con la Chiesa cattolica che, stipulato nel 1929, compromise il principio di uguaglianza dei culti facendo assumere alla religione cattolica il ruolo privilegiato di religione di Stato.

Per i culti “ammessi” nello Stato, fu approvata la legge 1159/1929 con le relative norme di attuazione del 1930): una normativa che - ancora oggi vigente sia pure con significativi temperamenti - prevede la possibilità di ottenere il riconoscimento della personalità giuridica degli enti religiosi ma introducendo una serie di controlli e di autorizzazioni per l’espletamento della attività di quelli che comunque venivano relegati nella posizione di “culti ammessi”.

È in tale ottica, in cui lo Stato intende ingerirsi nelle vicende interne di tali realtà e vigilare su di esse, che trova spiegazione il trasferimento delle competenze afferenti la materia dei culti nell’ambito dell’Amministrazione dell’interno, quale sede privilegiata rispetto al Ministero della giustizia.

Ed ecco allora che, trascorsi appena tre anni da quel passaggio di competenze, i prefetti del regno vengono avvertiti – cito testualmente - che “Esistono in alcune province del regno semplici associazioni di fatto che, sotto la denominazione di pentecostali o pentecostieri o tremolanti, attendono a pratiche di culto … che non può ulteriormente essere ammesso nel regno, … essendo risultato che esso si estrinseca e concreta in pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza …. “.

Questo è quanto veniva scritto nella circolare che, prendendo il nome dall’allora sottosegretario del Ministero dell’interno, è nota come Buffarini Guidi. Adottata nel 1935, quella direttiva ha tristemente “resistito” per un ventennio. Sono stati quindi necessari ben sette anni dall’entrata in vigore della Costituzione, perché venisse cancellata, alla luce dei nuovi valori in materia di libertà religiosa affermati.

Come sappiamo infatti l’ordinamento costituzionale – art. 8 - ha escluso ogni possibile discriminazione tra le varie confessioni religiose dichiarando che “sono egualmente libere davanti alla legge”, che le confessioni diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, a condizione che ovviamente non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano, e che i loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

Pur se affermato dalla Costituzione, il principio pattizio ha però stentato per lungo tempo a trovare applicazione. È stato infatti necessario attendere la revisione del Concordato con la Chiesa cattolica, che ha posto espressamente fine al principio della religione cattolica come religione di Stato, che si sono rotte – come efficacemente è stato detto – “le acque ferme della politica ecclesiastica”. Siamo nel 1984.

Anche io sono stata testimone di questa rapida evoluzione. Mi spiego. Quando dopo un faticoso concorso sono entrata nell’Amministrazione dell’ Interno, era il 1982, sapevo dell’ordine pubblico, sapevo dell’ elettorale e della protezione civile ma ben poco della Direzione degli affari dei culti alla quale venni assegnata: un ufficio del Viminale dove, da un lato, in virtù dei rapporti con la Chiesa cattolica che si adagiavano sull’applicazione del Concordato del 1929, con vecchie macchine calcolatrici si facevano ancora i conteggi per determinare il supplemento di congrua spettante ai parroci, e , dall’altro lato, i rapporti con i culti diversi dal cattolico - secondo la denominazione ancora oggi in uso nell’amministrazione – erano del tutto sopiti.

Ma torniamo alla revisione del Concordato con la Chiesa cattolica.

Da allora prende avvio il processo di attuazione dell’ art. 8, comma 3, della Costituzione e si apre la stagione delle “intese” dello Stato con le confessioni religiose. Nel giro di un quinquennio vengono emanate ben quattro leggi di recepimento di tali accordi con altrettante Confessioni (Tavola Valdese; Unione delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane).

In seguito, dal 1995 al 2016, seguiranno altre sette leggi di recepimento di intese con confessioni religiose. In questo “pacchetto” di accordi quel che certamente è di rilievo non è però il fatto che esso sia numericamente cospicuo quanto piuttosto che lo Stato abbia “contrattato” con realtà religiose che sono nuove nell’esperienza italiana. Accanto a quelle con Luterani, Battisti e Ortodossi si collocano infatti le intese con Buddisti e Induisti.

Anche nella procedura per la stipula di un'intesa, che è di competenza del Governo, vi è il ruolo forte del Ministero dell'interno che si manifesta sotto due profili:
- il primo, quello di maggior rilievo, è il parere che il deve esprimere sulla richiesta di intesa;
- il secondo è la partecipazione alla Commissione interministeriale per le intese deputata a predisporre la bozza di intesa unitamente alle delegazioni delle Confessioni religiose richiedenti l’intesa stessa.

Ma soprattutto – quel che è da sottolineare – è che per prassi le trattative per tali accordi vengono avviate solo con le confessioni il cui ente rappresentativo abbia ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica ai sensi della già citata legge del 1929, provvedimento alla cui istruttoria sovrintende appunto il Ministero dell’ interno che a tal fine è anche chiamato ad acquisire il parere del Consiglio di Stato.

E viene al riguardo a formarsi una giurisprudenza feconda di spunti interessanti e che negli anni si evolve, cogliendo le nuove spinte culturali.

Così il Consiglio di Stato, in un parere reso a metà degli anni Ottanta, dopo avere negato che, ai fini della riconoscibilità giuridica di un organismo non cattolico come ente di culto sia necessario che l’attività si estrinsechi in riti ed atti di culto, puntualizza che occorrerà invece che vi sia una relazione tra l’uomo e il sacro, inteso quest’ultimo come una realtà trascendente che supera il mondo fisico. Insomma, la religione vuole rispondere all’uomo che si chiede da dove viene e dove va, mettendolo in contatto con una realtà trascendentale. Se la risposta rimane invece chiusa nel mondo dell’immanenza e nella realtà fisica, non dovrebbe esserci religione. È, com’è agevole rilevare, una definizione – quella data dal Consiglio di Stato – che ben si attaglia alle religioni occidentali dove in effetti prevale il riferimento al trascendente. Si tratta però, come bene ha detto il professor Calzolari, di una costruzione che impropriamente l’Occidente si è arrogato il diritto di fare. Essa infatti taglia fuori alcune religioni dell’Oriente come il buddismo che vedono il sacro come insito nel mondo e non come entità distinta.

Ma, come prima dicevo, la giurisprudenza è stata rapida nell’evolversi, cogliendo le nuove spinte culturali.

Infatti sono bastati pochi anni perché già il primo ente buddista – l’Unione Buddista italiana (UBI) - ottenesse il riconoscimento giuridico previo parere favorevole del Consiglio di Stato. Siamo nel 1991. Dal 2012 i rapporti tra lo Stato e l’ UBI sono regolati sulla base della legge che ha recepito l’intesa ex art. 8 della Costituzione e dal 2016 è intervenuta la legge n. 130 a regolare i rapporti con un’altra realtà buddista, la Soka Gakkai.

Torniamo alla giurisprudenza, grazie alla quale il panorama dei rapporti con le realtà religiose si arricchisce di un principio non espressamente affermato dalla Carta costituzionale ma certamente ricavabile dalla stessa, quello della laicità dello Stato. Ne è artefice la Corte costituzionale.

“Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione,” - si legge infatti nella sentenza della Corte del 1989 - “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.

L’affermazione di questo principio di laicità, positiva ed accogliente, segna un passo importante verso un rapporto di dialogo tra Ministero dell’interno – pubblici poteri in genere - e realtà religiose, la cui presenza è ormai forte nella società italiana. E ciò anche grazie ai consistenti flussi immigratori di quegli anni (non a caso è nel 1990 che, con la c.d. legge Martelli, l’Italia per la prima volta regolamenta l’ingresso dei cittadini extracomunitari nel nostro Paese e prevede la regolarizzazione di quanti di essi erano già sul territorio, senza averne titolo).

Dicevo prima di un passo importante verso un rapporto dialogante tra Ministero dell’interno e realtà religiose … Nell’ ambito della Direzione degli affari dei culti si sperimenta così l’Osservatorio sulle libertà religiose, la cui formalizzazione si avrà qualche anno dopo, nel 1995, con il compito di condurre una ricerca sulla presenza delle realtà religiose nel nostro paese. Una ricerca che, lungi dall’essere un censimento stricto sensu, intende consentire - come si legge nel provvedimento istitutivo dell’Osservatorio stesso - una più approfondita conoscenza del fenomeno religioso. Finalità ultima dell’Osservatorio è poi quella di proporsi quale raccordo per la soluzione di particolari quesiti da parte delle pubbliche amministrazioni e quale punto di raccolta delle eventuali denunce di violazione del diritto di libertà religiosa.

Ma vi è di più.

Diviene significativa in Italia la presenza dell’islam: una presenza portata dall’ immigrazione – ricordiamo che, da quasi un ventennio, circa un terzo degli immigrati è di fede islamica - e arricchita da un buon numero di italiani che vi si sono convertiti.

Non sto qui a soffermarmi sul fatto che anche in Italia il processo di integrazione con la popolazione musulmana soffra di battute d’arresto. Ma ciò ha da anni posto le premesse perché con le comunità religiose islamiche si escogitino sedi e strumenti di confronto e di dialogo.

Ad aprire le porte ad una più obbiettiva conoscenza della galassia del mondo islamico che vive in Italia, allo scopo di meglio comprenderlo e di ricercare assieme a questo mondo una “comunione nelle differenze”, sono non solo rappresentanti di altre religioni (cattolica, protestante, ebraica, ecc.) ma anche studiosi e pubblici poteri.

È venuto così a consolidarsi un percorso di democrazia, spesso accidentato, che vede tra gli interpreti principali anche il Ministero dell’interno nel suo ruolo - complesso e variegato - di garante della coesione sociale, coesione sociale alla quale le Comunità religiose ben possono apportare un contributo prezioso. E si colloca in tale ottica, da ultimo, il Patto nazionale per un islam italiano che, proprio agli inizi dello scorso anno, ha visto quale firmatari il ministro Minniti e un ampio numero di associazioni e comunità islamiche, quelle più rappresentative a livello nazionale.

Del Patto si è già scritto molto e FOB, in particolare, ha dedicato all’ argomento due ampi articoli. Mi limito quindi a ricordare che l’accordo pone in capo alle associazioni una serie di impegni, in tema di sviluppo del dialogo con le istituzioni e la società civile, attraverso la formazione degli imam e delle guide spirituali, l'accessibilità dei luoghi di culto, la trasparenza dei finanziamenti, l’uso della lingua italiana nei sermoni. Il Ministero dell'interno, da parte sua, sottoscrive l'accordo con l'intento di sostenere le iniziative volte a rafforzare il dialogo tra le istituzioni e la comunità islamica, favorendo percorsi di integrazione degli immigrati musulmani e contrastando l'estremismo violento. E in ordine a quest’ ultimo punto voglio citare quanto a suo tempo detto dal professor Paolo Naso, coordinatore del Consiglio per i rapporti con l’islam: “ il fondamentalismo violento – che pure esiste – lo si può contrastare solo insieme ai musulmani, e non senza o contro di loro”. Lo condivido pienamente. Abbiamo davanti un percorso che è difficile, in Italia come nel resto d’Europa, ma sul quale credo che occorra certamente puntare.

Nelly Ippolito Macrina