Ammissibile il divieto di indossare il velo islamico nelle scuole fiamminghe

Sezione:
European Court of Human Rights

Il divieto di indossare simboli visibili del credo nel sistema educativo ufficiale della Comunità fiamminga non è incompatibile con l'articolo 9 della Convenzione

Cancelliere della Corte Europea (16.05.2024) - Nella sua sentenza sul caso Mikyas e altri c. Belgio (ricorso n. 50681/20), la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha, a maggioranza, dichiarato il ricorso irricevibile. La sentenza è definitiva.

Il caso riguardava tre giovani donne di fede musulmana. Hanno denunciato il fatto di non poter indossare il velo islamico nelle loro scuole secondarie (tranne che durante le lezioni di educazione religiosa), in seguito al divieto di indossare simboli visibili del proprio credo nel sistema educativo ufficiale della Comunità fiamminga.

La Corte ha dichiarato che il concetto di neutralità nel sistema scolastico comunitario, inteso come divieto generale di indossare simboli visibili del proprio credo da parte degli alunni, non è di per sé in contrasto con l'articolo 9 della Convenzione e con i valori che lo sottendono.

Nel caso in esame, la Corte ha osservato che il divieto contestato non riguardava solo il velo islamico, ma si applicava indistintamente a tutti i simboli visibili di credo. Ha ritenuto che le autorità nazionali avessero il diritto, in considerazione del potere discrezionale ("margine di apprezzamento") di cui godono, di prevedere che il sistema educativo della Comunità fiamminga fornisca un ambiente scolastico in cui gli alunni non indossino simboli religiosi.

La restrizione contestata poteva quindi dirsi proporzionata agli obiettivi perseguiti, ossia la tutela dei diritti e delle libertà altrui e dell'ordine pubblico, e quindi era "necessaria" "in una società democratica". Ne consegue che il ricorso dei ricorrenti ai sensi dell'articolo 9 della Convenzione era manifestamente infondato. Le altre denunce sono state rigettate per non aver esaurito tutte le vie di ricorso nazionali.

Un riassunto legale di questo caso sarà disponibile nella banca dati HUDOC della Corte.

Fatti principali

Il Belgio è uno Stato federale, in cui l'istruzione è di competenza delle  Comunità (articolo 127 della Costituzione).

I tre ricorrenti sono cittadini belgi nati tra il 2001 e il 2004 e vivono a Maasmechelen (Belgio). Hanno dichiarato di identificarsi come musulmani e di indossare il velo islamico in conformità con le loro convinzioni religiose.

All'epoca dei fatti erano alunni di scuole appartenenti al gruppo scolastico 14 Maasland e facenti parte del sistema educativo ufficiale organizzato dalla Comunità fiamminga (secondo l'annuario statistico del sistema educativo fiammingo per l'anno accademico 2022-23, questa categoria riguardava circa il 17% della popolazione scolastica fiamminga per il livello primario e circa il 22% per il livello secondario).

Nel 2009 il Consiglio per l'educazione della Comunità fiamminga (GO! Onderwijs van de Vlaamse Gemeenschap ("il GO!")) ha deciso di estendere a tutta il suo network il divieto di indossare simboli visibili del proprio credo. La misura era destinata ad applicarsi a tutte le attività scolastiche, fatta eccezione per l'educazione religiosa e le lezioni di etica non confessionali. Le scuole frequentate dai ricorrenti hanno applicato questo divieto.

Quando i ricorrenti erano stati iscritti alle rispettive scuole secondarie, i loro genitori avevano sottoscritto il regolamento scolastico contenente il divieto in questione.

Nel 2017 i genitori dei ricorrenti, in qualità di loro rappresentanti legali, hanno intentato un'azione legale contro il GO!, invocando il diritto alla libertà di religione dei ricorrenti. L'anno successivo, il Tribunale di Tongeren ha ritenuto che il divieto in questione fosse incompatibile con l'articolo 9 della Convenzione. Nel 2019, tuttavia, la Corte d' Appello di Anversa ha annullato tale sentenza e ha ritenuto che le richieste dei ricorrenti fossero infondate. Nel 2020 un avvocato della Corte di Cassazione ha indicato ai ricorrenti che un ricorso per motivi di diritto non aveva molte possibilità di essere accolto. I ricorrenti decisero di non presentare un ricorso per motivi di diritto.

Denunce

Davanti alla Corte, i ricorrenti hanno sostenuto che il divieto in questione violava i loro diritti e libertà garantiti dagli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), 10 (libertà di espressione) della Convenzione e dall'articolo 2 del Protocollo n. 1 (diritto all'istruzione) della Convenzione, presi singolarmente e in relazione all'articolo 14 (divieto di discriminazione). Hanno inoltre affermato di essere stati discriminati nel godimento di tali diritti.Procedura e composizione della Corte

Il ricorso è stato presentato alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo il 12 novembre 2020. La sentenza è stata emessa da una Camera formata da sette giudici, composta come segue: Arnfinn Bårdsen (Norvegia), Presidente, Jovan Ilievski (Macedonia del Nord), Pauliine Koskelo (Finlandia), Saadet Yüksel (Turchia), Frédéric In Krenc (Belgio), Diana Sârcu (Repubblica della Moldavia), Davor Derenčinović (Croazia), e inoltre Hasan Bakırcı, Cancelliere della Sezione.

Immagine
European Court of Human Rights

Corte Europea dei Diritti Umani, Strasburgo (credits)


Sentenza della Corte

La Corte ha ritenuto che la parte del ricorso che riguardava gli articoli 8, 10 e 14 della Convenzione e l'articolo 2 del Protocollo n. 1 della Convenzione fosse irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso nazionali, dal momento che i ricorrenti non avevano presentato alle autorità nazionali (né in modo esplicito né in modo sostanziale) alcun argomento giuridico relativo ai diritti garantiti da tali articoli.

Per quanto riguarda l'articolo 9 della Convenzione, la Corte ha osservato che il caso in questione riguardava un tipo di istruzione pubblica, ovvero il sistema educativo ufficiale della Comunità fiamminga. Ai sensi dell'articolo 24 § 1 (3) della Costituzione, questa istruzione doveva essere neutrale. Secondo questa disposizione costituzionale, la neutralità implicava, in particolare, il rispetto delle convinzioni filosofiche, ideologiche o religiose dei genitori e degli alunni.

Per rispettare questo requisito costituzionale, il Consiglio GO! aveva deciso di introdurre un divieto generale di indossare simboli visibili di credo all'interno dei suoi istituti, e la Corte Costituzionale aveva ritenuto che questo concetto di neutralità fosse compatibile con l'articolo 24 § 1 (e) della Costituzione. La decisione del Consiglio GO! è stata motivata in modo dettagliato, tenendo conto sia del contesto del sistema educativo messo in atto dalla Comunità fiamminga, sia dei diversi interessi in gioco ai sensi dell'articolo 9 della Convenzione.

Facendo riferimento alla sua precedente giurisprudenza e ribadendo che le autorità nazionali godono di un certo margine di discrezionalità ("margine di apprezzamento") nel regolamentare l'uso di simboli di fede negli istituti scolastici statali, la Corte ha ritenuto che il concetto di neutralità nel sistema educativo comunitario, inteso come divieto generale di indossare simboli visibili di fede da parte degli alunni, non fosse di per sé in contrasto con l'articolo 9 della Convenzione e con i suoi valori sottesi.

A questo proposito, ha osservato che il divieto contestato non si limita al velo islamico, ma si applica indistintamente a qualsiasi simbolo visibile del proprio credo.

Inoltre, i ricorrenti avevano scelto liberamente di frequentare le scuole del sistema educativo comunitario e non potevano ignorare che i relativi organi di governo erano tenuti, in base alla Costituzione, a garantire il rispetto del principio di neutralità in tali scuole. I ricorrenti erano anche stati informati in anticipo delle regole vigenti nelle scuole in questione e avevano accettato di rispettarle.

Nella misura in cui il divieto contestato aveva lo scopo di proteggere gli alunni da qualsiasi forma di pressione sociale e di proselitismo, la Corte ha ribadito che era importante garantire che, in linea con il principio del rispetto del pluralismo e della libertà altrui, la manifestazione del proprio credo religioso da parte degli alunni nei locali della scuola non assumesse il carattere di un atto ostentativo che potesse costituire una fonte di pressione e di esclusione. A questo proposito, non ha ritenuto opportuno mettere in discussione le conclusioni del Consiglio GO! né quelle della Corte d'Appello di Anversa, secondo le quali si erano verificati incidenti in alcune scuole che rientravano nel sistema educativo comunitario. Infine, la Corte non ignorava la diversa situazione in cui si trovavano insegnanti e alunni.

Inoltre, la Corte non ignorava la diversa situazione in cui si trovavano insegnanti e alunni. Mentre i primi erano simboli di autorità nei confronti dei secondi e potevano di conseguenza essere soggetti a restrizioni nell'espressione delle loro convinzioni, gli alunni minorenni erano, da parte loro, più vulnerabili. A questo proposito, la Corte aveva già affermato che il divieto per gli alunni di indossare simboli religiosi poteva corrispondere a una preoccupazione specifica di prevenire qualsiasi forma di esclusione o pressione, nel rispetto del pluralismo e della libertà altrui.

Nel caso di specie, le autorità nazionali avevano il diritto, tenuto conto del potere discrezionale di cui disponevano, di prevedere che il sistema scolastico della Comunità fiamminga fornisse un ambiente scolastico in cui gli alunni non indossassero simboli religiosi. La Corte ha sottolineato in diverse occasioni che il pluralismo e la democrazia devono basarsi sul dialogo e su uno spirito di compromesso, che comporta necessariamente diverse concessioni da parte degli individui, giustificate al fine di mantenere e promuovere gli ideali e i valori di una società democratica. La restrizione contestata poteva quindi essere considerata proporzionata agli obiettivi perseguiti, ossia la tutela dei diritti e delle libertà altrui e dell'ordine pubblico, e quindi "necessaria" "in una società democratica". Ne consegue che le denunce ai sensi dell'articolo 9 della Convenzione erano manifestamente infondate.

Fonte: HRWF

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