di Francesco Alicino — Sommario: 1. Introduzione – 2. La vicenda emblematica della (mancata) approvazione dei ministri di culto buddhisti – 3. L’entrata in vigore della legge n. 245/2012 di approvazione dell’intesa con l’UBI – 4. L’approvazione della nomina dei ministri Fudenji vs l’approvazione dell’intesa con l’UBI – 5. L’efficacia dei decreti di approvazione delle nomine dei ministri di culto alla luce della legge ex art. 8 (c. 3) Cost. – 6. La legge ex art. 8 (c. 3) Cost. e l’intesa con l’UBI. Formale identità vs conformità sostanziale – 7. La legge di approvazione dell’intesa con l’UBI e l’art. 20 Cost. – 8. A che cosa serve il decreto di approvazione ex art. 3 della legge 1159/1929? – 9. Conclusioni.
1. Introduzione
Nella Costituzione italiana la disciplina dei rapporti fra Stato e religioni s’impernia sul principio di eguaglianza, che implica il rispetto del diritto alla differenza (l’eguaglianza nella differenza) [1]. Un principio e un diritto sovente funzionali all’autonoma soggettività delle singole organizzazioni confessionali (art. 8, c. 2, Cost.), aderendo alle quali un individuo può svolgere la sua personalità (artt. 2 e 3 Cost.) [2], religiosamente orientata [3]. Ciò spiega perché non è esclusa nel nostro ordinamento l’ipotesi del favor legis nei confronti di questi corpi sociali, tale da gratificarli «nella loro proficuità personalistica» [4]. Fermo restando l’eguaglianza delle condizioni di libertà, ciascuna di queste identità differenziate può quindi essere tutelata con il ricorso allo strumento della negoziazione bilaterale, che entra in gioco proprio quando la normativa unilaterale è «rigida o generica e si cerca una deroga o una specificazione per evitare un conflitto tra lealtà verso lo Stato e identità confessionali» [5].
Siamo innanzi a una delle caratteristiche più importanti del meccanismo convenzionale ex art. 8 (c. 3) Cost., nondimeno contradetto da una lunga prassi governativa e parlamentare, connotata da una sostanziale standardizzazione del contenuto delle intese, di cui si è per questa via ridotta la capacità di dare rilevanza alle «disposizioni identitarie» [6] delle singole confessioni interessate [7]. Da mezzo «per rimarcare le identità», l’intesa si è difatti sostanziata «in una prova di affidabilità delle Chiese», le quali possono così accedere a «misure di favore fiscale» oppure a «risorse economico-finanziarie di natura pubblica» [8]. In questo modo, la standardizzazione si attesta come una “creatura” autofagica che, snaturando gli obiettivi dell’istituto di cui all’art. 8 (c. 3) Cost., si nutre e rafforza mediante elementi da essa stessa prodotti. Lo dimostra l’appiattimento dell’atteggiamento dei vertici istituzionali delle organizzazioni stipulanti che, preoccupate di non irrigidire eccessivamente la trattativa con lo Stato e rendere più agevole la sottoscrizione dell’accordo, sono spesso portate a eliminare dalla negoziazione gli aspetti specifici e peculiari della loro soggettività [9]. Quegli stessi aspetti che, invece, l’intesa avrebbe dovuto esaltare e onorare [10].
Talvolta le specificità delle confessioni vengono soddisfatte – o così si ritiene, errando da parte delle religioni interessate – sottraendosi alla disciplina comune unilateralmente predisposta dallo Stato. Ed è allora che la maggiore disponibilità delle organizzazioni confessionali può dar luogo ad aspetti paradossali. Ne dà testimonianza la vicenda della rilevanza civile dei matrimoni religiosi celebrati dai ministri di culto buddhisti.
2. La vicenda emblematica della (mancata) approvazione dei ministri di culto buddhisti
Il paradosso si alimenta mediante il vorticoso susseguirsi di decreti ministeriali, ricorsi amministrativi, note informative, ordinanze e sentenze giudiziali, leggi di approvazione di intese. Atti che, scandendo la trama degli eventi, si aggrovigliano attorno a un’iniziativa apparentemente innocua, risalente al 9 giugno 2009. Quando, ai sensi dell’art. 3 della legge 24 giugno 1929 (n. 1159) e dell’art. 20 del relativo Regio decreto 28 febbraio 1930 (n. 289) [11], due maestri di Dharma dell’Istituto Italiano Zen Sôtô Shôbôzan Fudenji – ente legalmente riconosciuto dallo Stato [12] e aderente all’Unione Buddhisti Italiani (UBI) [13] –, chiedono l’approvazione governativa della propria nomina a ministro di culto. Richiesta a proposito della quale tanto il Comando dei Carabinieri quanto la Prefettura di Parma si sono espressi favorevolmente.
Passano dieci mesi e, dopo aver preavvisato gli interessati [14], il Ministero dell’Interno respinge l’istanza, disattendendo le articolate osservazioni prodotte in sede di replica al preannuncio di rigetto. La motivazione è piuttosto scarna: «le risultanze istruttorie non consentono una valutazione positiva della richiesta».
Avverso la decisione ministeriale, i maestri buddhisti adiscono con due distinti ricorsi il TAR di Reggio Emilia, sede di Parma, prospettando la violazione, fra gli altri, dell’art. 10-bis della legge 7 agosto del 1990 (n. 241) sul procedimento amministrativo: gli atti dell’Amministrazione centrale si distinguono per omessa indicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della richiesta. Seguono (15 settembre 2010) due ordinanze di uguale contenuto, con le quali il Tribunale parmense sospende gli effetti del provvedimento ministeriale, ma solamente «ai limitati fini della rinnovazione del procedimento» [15]. In pratica, si invita l’organo amministrativo di vertice a riesaminare – con più cura – la questione, valutandola sotto i profili della legittimità e dell’opportunità.
Il Ministero resta però fermo sulle sue posizioni. Dopo aver nuovamente informato i ricorrenti circa i motivi ostativi all’approvazione delle nomine, in data 21 dicembre 2010 emette nuovi decreti di rigetto, di contenuto simile ai precedenti. Con un’unica differenza: l’Amministrazione tiene a precisare che l’approvazione sarebbe «necessaria» al solo fine di «riconoscere effetti civili» all’unione matrimoniale celebrata dal ministro di culto buddhista, essendo le altre funzioni indicate nel Regio decreto n. 289/1930 da ritenersi o «superate dai principi costituzionali (artt. 3 e 4)» o «non attuali» in base agli artt. 7 e 8 della medesima Carta. Considerato che l’istituto del matrimonio non è previsto nell’intesa firmata dall’UBI il 4 aprile 2007, il Ministero decide quindi di confermare il diniego all’approvazione delle nomine [16].
Contro questa sopraggiunta determinazione il 15 febbraio 2011 i due maestri buddhisti notificano e depositano nuovi ricorsi, riproponendo sostanzialmente le questioni già dedotte in precedenza. Si fa peraltro notare che la mancata regolamentazione dell’istituto del matrimonio nell’intesa dell’aprile 2007 non sarebbe rilevante poiché, oltre a non essere stata ancora approvata per legge, non è ostativa al permanere delle specificità delle tradizioni della comunità Fudenji: specificità neppure prese in esame dall’Autorità procedente, nonostante esse siano state documentate in sede di richiesta del riconoscimento della personalità giuridica, definita con il D.P.R. del 1999.
D’identico contenuto, due sentenze del 5 maggio 2011 [17] del TAR di Parma annullano i primi decreti di rigetto, rinviando la decisione su quelli del 21 dicembre 2010 al TAR del Lazio, sede di Roma, ritenuto territorialmente competente [18]. La valutazione dell’Amministrazione centrale si sostanzia in un apprezzamento discrezionale ancorato, da un lato, all’accertamento dell’affidabilità, della serietà e della moralità della persona che riveste la carica confessionale [19] e, dall’altro, alla verifica della sussistenza di una comunità di fedeli qualitativamente e quantitativamente consistente [20]. Motivo per cui non v’è ragione per delimitare a una o più province l’ambito territoriale del decreto ministeriale, trattandosi di un provvedimento costitutivo di uno status, con effetti estesi all’intera nazione [21]. Ed è così che, nel repentino avvicendarsi di atti amministrativi e ricorsi giudiziali, entra in scena il TAR del Lazio, marcando la sua presenza con le decisioni del 21 e del 30 maggio 2012 [22]: sentenze distinguibili solamente per il nome dei due ricorrenti, essendone i contenuti esattamente i medesimi.
In questa sede si sottolinea come il diniego all’approvazione delle nomine si appigli principalmente a quanto stabilito da un’intesa, quella siglata dall’UBI il 4 aprile 2007, non ancora approvata per legge. E bisogna pure rammentare l’esatto contenuto dell’art. 8 (c. 3) Cost. che, sul punto, si distingue dall’art. 7 (c. 2) Cost., posto a presidio della disciplina dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica: qui sono i Patti lateranensi a dominare la scena; lì, invece, i rapporti fra lo Stato e le confessioni diverse dalla cattolica non sono disciplinati dalle intese (perlomeno non direttamente), bensì dalla legge sulla base di intese. Quanto assunto dal Ministero dell’Interno nel provvedimento impugnato – e cioè che l’approvazione delle nomine dei maestri buddhisti non sarebbe produttiva di effetti giuridici a causa dell’intesa con l’UBI del 2007 – è perciò giuridicamente privo di pregio. Il decreto di rigetto è in tal modo annullato e l’Amministrazione centrale obbligata a ritornare sulle sue posizioni, tenendo conto di questo orientamento giurisprudenziale [23].
Così, a distanza di oltre tre anni dalla richiesta e dopo un’altra – l’ennesima – istruttoria, il Governo riconosce legalmente il ruolo dei ministri buddhisti, emettendo (4 gennaio 2013) due decreti di approvazione delle nomine, notificati agli interessati il 17 gennaio 2013. Questione chiusa, verrebbe da dire ai maestri di Dharma, che possono così tirare un sospiro di sollievo. Ma, estendendo ai buddhisti l’adagio ordinariamente in voga fra i cristiani, non bisogna mai dimenticare che il diavolo può metterci sempre la coda. Solo che il mondo sembra ormai poter fare a meno del diavolo: forse perché talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che spesso sanno fare meglio di lui. Gli eventi che connotano il periodo immediatamente successivo all’adozione dell’atto abilitativo del Ministero dell’Interno lo dimostrano apertamente.
3. L’entrata in vigore della legge n. 245/2012 di approvazione dell’intesa con l’UBI
Coincidenza vuole che nel giorno della notificazione del decreto di approvazione delle nomine sia pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge 31 dicembre 2012 (n. 245). Una legge che, approvata in base all’intesa con l’UBI dell’aprile 2007, lungi da favorire la posizione giuridica dei due religiosi, la complica rovinosamente: trascorsi i quindici canonici giorni della vacatio legis, la sua entrata in vigore (1 febbraio 2013) provoca infatti la cessazione degli effetti dei predetti provvedimenti ministeriali del 4 gennaio 2013.
Ma andiamo per ordine.
Investita dal dilemma giuridico provocato dalla conflittuale coesistenza (così perlomeno appare agli organi amministrativi) fra il decreto ministeriale di approvazione delle nomine, reso sulla base della legislazione sui culti ammessi, e la legge n. 245/2012, che nulla prevede a riguardo del matrimonio, l’ufficiale dello stato civile del Comune di Salsomaggiore Terme pone un quesito all’Amministrazione dell’Interno. La Direzione Centrale degli Affari dei Culti propende per la perdita di efficacia dei decreti di approvazione delle nomine dei due maestri di Dharma.
La posizione dell’organo amministrativo di vertice assume dei contorni più chiari nella seconda metà del mese di febbraio 2013, quando il Ministero invia a tutte le Prefetture una nota informativa, precisando che:
in data 31 dicembre 2012, sono state approvate le leggi relative alle due Confessioni religiose diverse dalla cattolica di seguito indicate: Unione Buddhista Italiana; e Unione Induista Italiana Sanatana Dharma Samgha. Pertanto con l’entrata in vigore di tali leggi vengono a cessare, per le confessioni religiose in argomento, gli effetti della legge 1159 del 24 giugno 1929. In particolare, vengono a cessare gli effetti dei decreti ministeriali di approvazione della nomina a ministro di culto in quanto – dalla data di entrata in vigore delle leggi anzidette – il riconoscimento degli effetti civili dei matrimoni celebrati di fronte ai ministri di culto deriva dalle leggi d’intesa in argomento che ne regolano la procedura. In tale previsione specificata rientra il caso dei ministri di culto appartenenti all’Unione Induista Italiana Sanatana Dharma Samgha. Diversamente, invero, si rileva che la legge d’intesa dell’Unione Buddhista Italiana non contiene disposizioni inerenti al riconoscimento degli effetti civili dei matrimoni celebrati dai ministri di culto ad essa appartenenti [24].
Insomma, dal momento che l’intesa con l’UBI approvata per legge nel dicembre 2012 non prevede disposizioni sul matrimonio religioso, i due maestri di Dharma non potranno celebrare riti di nozze che esplichino effetti civili. In questa sede si rileva che una tale soluzione è determinata «in ottemperanza a un pregresso giudicato» [25], ovvero al contenuto delle citate pronunce del TAR del Lazio del 21 e del 30 maggio 2012 [26].
4. L’approvazione della nomina dei ministri Fudenji vs l’approvazione dell’intesa con l’UBI
La reazione del Ministero era in effetti già stata delineata dalle sentenze del giudice amministrativo, nelle quali si faceva presente che se in futuro, nonostante l’entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa dell’aprile 2007, fosse stata confermata la vigenza dei decreti ministeriali, si sarebbe determinata una condizione giuridica indebitamente disomogenea: una condizione generata dalla disparitaria coesistenza tra ministri abilitati a celebrare matrimoni con effetti civili e ministri, dello stesso culto, non abilitati. Per porre rimedio a questa situazione il TAR del Lazio formula un’ipotesi secondo la quale, in concomitanza con l’entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa con l’UBI, al decreto ministeriale di approvazione delle nomine devono essere applicati gli «istituti del ritiro dell’atto amministrativo ovvero della sua revoca ovvero della previsione della cessazione dei relativi effetti» [27]. Che è poi la posizione assunta in concreto dal Ministero dell’Interno con la citata nota informativa, connotata fra l’altro da una classificazione giuridica incerta: non si riesce infatti a comprendere se con questa nota l’Amministrazione abbia voluto procedere alla revoca del decreto di approvazione delle nomine ovvero al suo ritiro oppure alla cessazione degli effetti.
Sul punto occorre ricordare che i decreti di approvazione delle nomine non sono affetti da un’illegittimità originaria, né da un’illegittimità sopravvenuta. Si tratta invece di provvedimenti legittimi, dai quali però rampolla un conflitto con disposizioni legislative successive alla determinazione ministeriale. Un contrasto che, palese sul piano sul piano formale, si ridimensiona su quello sostanziale, giustificando se del caso la vigenza dei decreti in questione, sottoponibili alla regola tempus regit actum.
All’entrata in vigore della legge n. 245/2012 gli effetti dei decreti ministeriali di approvazione delle nomine erano già stati acquisiti al patrimonio giuridico dei due maestri di Dharma, divenendo insensibili agli atti di revoca non adeguatamente giustificati. Tanto le regole generali che governano la successione delle leggi nel tempo quanto il principio tempus regit actum [28] attestano che «la legittimità dei provvedimenti amministrativi deve essere vagliata alla luce del quadro normativo vigente al tempo della relativa adozione». L’Amministrazione può legittimamente revocare un provvedimento, ma solo nei casi in cui fossero «sopravvenuti motivi di pubblico interesse e per mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario» [29]. Applicato al caso di specie, ciò significa che il Ministero può anche decidere di revocare i decreti di nomina, ma solo se affetti da vizi di merito: perché, ad esempio, divenuti inopportuni rispetto alla tutela dell’interesse pubblico che quei decreti avevano intenzione di soddisfare al momento della loro emanazione; oppure perché dichiarati inidonei a seguito di un successivo apprezzamento degli interessi coinvolti. Condizioni, queste, che non sembrano configurabili nelle vicende giuridiche riguardanti i ministri di culto dell’Istituto Fudenji.
E va pure ricordato che al principio d’irretroattività della legge può entro certi limiti sottrarsi il legislatore ordinario, ma non può sottrarsi l’interprete. Come regola generale d’interpretazione, questo principio è vincolante. Salvo che la disposizione, nella sua interpretazione retroattiva, sia «favorevole» a tutti gli interessi coinvolti nella situazione da disciplinare [30]. Lo stesso si dica per l’«abrogazione della normativa posta a fondamento dell’atto amministrativo», che non «retroagisce negativamente sulla sorte degli atti adottati in conformità alla disciplina legislativa ratione temporis vigente» [31]. È sempre possibile prevedere delle eccezioni. Ma queste devono essere sanzionate da un’espressa clausola di retroattività [32], che non ricorre nel caso in questione. La legge n. 245/2012, infatti, non contiene disposizioni che estendono la relativa disciplina alle fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore [33].
5. L’efficacia dei decreti di approvazione delle nomine dei ministri di culto alla luce della legge ex art. 8 (c. 3) Cost.
Tutto ciò porterebbe a sostenere la vigenza dei suddetti decreti di approvazione delle nomine, i quali possono così essere dichiarati legittimi, validi ed efficaci. Sennonché, analogamente a quasi tutti i dispositivi legislativi ex art. 8 (c. 3) Cost. adottati fino ad oggi dal Parlamento italiano [34], la legge n. 245/2012 dichiara che dopo la sua entrata in vigore la legislazione sui culti ammessi – in base al quale erano stati emessi i decreti di approvazione delle nomine – «cessa di avere efficacia ed applicabilità nei riguardi dell’UBI, degli organismi da essa rappresentati e di coloro che ne fanno parte» [35]. Sotto il profilo giuridico, siamo quindi innanzi a un caso di sopravvenienza di una legge che non solo vieta per il futuro atti che prima “erano legittimi”, ma che comunica l’inefficacia di provvedimenti amministrativi precedentemente compiuti.
Si tratta in altre parole di un decreto di approvazione delle nomine che, successivamente alla sua emanazione e a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 245/2012, si ritrova privo di base normativa [36]. Ciò che avrebbe dovuto far preoccupare l’UBI, spingendo gli organi direttivi ad agire di conseguenza: a seguito delle predette sentenze del TAR del Lazio, essi avrebbero dovuto chiedere al Governo la parziale rinegoziazione dell’intesa del 2007, prima che questa fosse approvata per legge. Una modifica che prevedesse la rilevanza civile dei matrimoni celebrati dai ministri degli organismi aderenti all’UBI, o quantomeno di quelli officiati dai maestri di Dharma dell’Istituto Fudenji, che a quella disciplina aveva interesse. Anche perché, sulla scorta della citata standardizzazione del contenuto delle intese, le disposizioni sul matrimonio sono previste in tutte le altre leggi ex art. 8 (c. 3) Cost. approvate fino ad oggi nel nostro ordinamento [37], eccezion fatta per quella riguardante l’accordo con l’UBI – appunto – dell’aprile 2007.
L’inerte atteggiamento dell’UBI può forse essere stato determinato dal timore per una fatale dilazione dei termini, che la riapertura dei negoziati avrebbe potuto provocare sull’iter di approvazione dell’intesa. Bisogna infatti ricordare che, stipulata per la prima volta nel lontano 2000 e sottoscritta nuovamente nell’aprile 2007, nel momento in cui il TAR del Lazio pronunciava i suoi verdetti l’intesa con l’UBI stava godendo dell’improvvisa accelerazione nel procedimento di approvazione; un repentino cambio di marcia impresso all’iter legislativo da un’inedita iniziativa parlamentare, anziché governativa come da prassi precedente [38]. La richiesta di rinegoziazione dell’intesa sarebbe pertanto apparsa incompatibile con la volontà di approvazione della stessa.
Ciononostante, queste considerazioni non avrebbero dovuto impedire ai diretti interessati, ossia ai maestri di Dharma dell’Istituto Fudenji, di correre ai ripari, sollecitando gli organi direttivi dell’UBI ad attivarsi per evitare un conflitto che, considerati gli orientamenti del giudice amministrativo e l’inaspettata sortita parlamentare, si andava inevitabilmente affermando fra i decreti di approvazione delle loro nomine e la legge n. 245/2012 in via di perfezionamento. Facendo leva sugli artt. 14 e 15 dello Statuto dell’UBI, ciò avrebbe potuto quantomeno ridimensionare il rischio di trovarsi innanzi a un incerto crocevia, ineluttabilmente definito da due soluzioni, entrambe dispendiose per l’Istituto in questione. Da un lato, la scelta che porta a rinegoziare i contenuti dell’intesa con l’UBI, rendendola compatibile con le esigenze dell’Istituto Fudenji: scelta che, considerando la storia normativa nell’attuazione del dispositivo convenzionale di cui all’art. 8 (c. 3) Cost., implica estenuanti tempi procedurali, richiesti sia per la modificazione dell’intesa che per la sua approvazione. Dall’altro, la domanda di «recesso volontario» (art. 9, Statuto dell’UBI), ovvero la perdita da parte della comunità Fudenji della qualifica di membro associato all’UBI: di modo che, superato l’ostacolo delle disposizioni di cui alla legge n. 245/2012, l’Amministrazione dell’Interno possa eventualmente ravvisare l’opportunità di adottare una determinazione di contenuto identico al decreto di approvazione del 4 gennaio 2013, benché destinato a produrre effetti in un diverso e successivo ambito temporale [39]. Questa soluzione premette però la perdita dei benefici derivanti dall’intesa e l’assoggettamento alle disposizioni della legge fascista sui culti ammessi. A meno che l’Istituto Fudenji non decida di chiedere autonomamente la stipulazione di un’accordo ex art. 8 (c. 3) Cost., così come ad esempio prospettato dall’organizzazione buddhista Soka Gakkai (un’organizzazione riconosciuta come ente di culto con il D.P.R del 20 novembre 2000 [40]), le cui trattative con il Governo italiano risalgono, quanto alla data d’inizio, al 18 aprile 2000 [41]!
6. La legge ex art. 8 (c. 3) Cost. e l’intesa con l’UBI. Formale identità vs. conformità sostanziale
Va peraltro ricordato che, con la suddetta nota, il Ministero dell’Interno dichiara cessati gli effetti del decreto di approvazione delle nomine dei maestri di Dharma in ottemperanza a un pregresso giudizio, così come definito dalle sentenze del TAR del Lazio del maggio 2012: in cui, al di là delle questioni strettamente connesse con il caso in esame, il giudice non lesina considerazioni di più larga e generale portata, impegnando parte del proprio indirizzo su tematiche riconducibili al ruolo e alla funzione che l’intesa deve assumere nel nostro ordinamento.
In tali sentenze il TAR del Lazio dichiara infatti che, stando ai precetti costituzionali, il dispositivo pattizio rappresenta lo strumento «più idoneo a perseguire il risultato del miglior coordinamento tra l’ordinamento statale e le confessioni interessate». L’intesa avrebbe inoltre l’effetto «di vincolare univocamente» le parti e, eventualmente, il legislatore nazionale, qualora questo decidesse di approvarla per legge: solamente i contenuti dell’accordo siglato dal Governo e dalla confessione interessata possono «ricevere veste legislativa» [42]. A ciò si aggiunge che, considerato quanto prescritto dall’art. 8 (c. 3) Cost., «alla disciplina pattizia non possono essere apportate modifiche (unilaterali) in sede legislativa» [43].
Orbene, seppur inappuntabile sul piano formale, applicato al caso di specie la posizione del giudice amministrativo non è scevra da contraddizioni, soprattutto se raffrontata con quanto stabilito dalla Carta costituzionale. È vero, nella legge n. 245/2012 si afferma che le sue disposizioni sostituiscono «a ogni effetto, nei confronti dell’UBI, e degli organismi da essa rappresentati, la citata legislazione sui culti ammessi» [44]. Ed è altrettanto manifesto che tale provvedimento legislativo non sia comprensivo della disciplina del matrimonio. Ma, né quell’affermazione né tanto meno quest’omissione sanciscono necessariamente un’esclusione.
Nella legge n. 245/2012 non si esclude, perlomeno non in modo esplicito, che alcuni centri aderenti all’UBI possano celebrare il matrimonio. La domanda che quindi si pone è la seguente: trattandosi di questione non disciplinata dall’accordo del 2007, è possibile ritenere vigente la legge pregressa, la quale sarebbe così abrogata solo relativamente alle materie regolamentate dall’intesa? La risposta sorge alquanto spontanea: così sarebbe, verosimilmente, se fosse stata approvata una legge sulla libertà religiosa. Una legge ancor oggi assente nell’ordinamento italiano, nonostante la pressione esercitata dai dettati costituzionali, a cominciare da quelli contenuti nelle disposizioni di cui agli artt. 8 (c. 1), 19 e 20 Cost., che restano sul punto sostanzialmente inapplicati [45].
Ciononostante, anche a legislazione invariata, accanto al doveroso rilievo sotteso al formale contrasto esistente fra la legge n. 245/2012 e i decreti di approvazione delle nomine, bisogna anche cercare di evitare di cadere nella trappola perversa del summum ius summa iniuria. Occorre cioè evitare che, nel solco di una frenesia formalistica, si finisca per legittimare un’interpretazione sostanzialmente violatrice dei principi costituzionali. Ciò che rischia di realizzarsi quando non si prendono in seria considerazione le circostanze concrete disciplinate dalla legge ex art. 8 (c. 3) Cost. e, soprattutto, le finalità cui essa dovrebbe tendere. Se, al contrario, si ponesse sufficiente attenzione su questi elementi, le problematiche sollevate dalla richiesta dei ministri di culto della comunità Fudenji potrebbero essere esaminate mediante strumenti interpretativi logicamente e giuridicamente più idonei, assumendo contorni costituzionalmente più chiari e definiti. Insomma, alla luce di queste considerazioni, quello che appare dubbio è l’effettiva tenuta costituzionale dell’interpretazione formalmente scontata data al caso qui commentato.
7. La legge di approvazione dell’intesa con l’UBI e l’art. 20 Cost.
Il dubbio si giustifica innanzitutto con riferimento all’art. 20 Cost., che serve proprio a escludere particolari limitazioni legislative nei confronti di una associazione o di una istituzione con il fine di religione o di culto, in quanto queste limitazioni sono in contrasto con le norme sulla libertà di fede. A cominciare da quelle contenute nell’art. 19 Cost., che devono essere interpretate congiuntamente alle disposizioni di cui agli artt. 2, 3 e 8 Cost [46]. In questo senso, i ministri di culto possono essere considerati come soggetti la cui funzione partecipa all’esercizio concreto dell’eguale libertà e dell’autonomia organizzativa-istituzionale di una religione, conferendo contestualmente ai singoli fedeli la possibilità di svolgere la loro personalità, in condizione di eguaglianza formale e sostanziale. Ora, con la legge di approvazione dell’intesa con l’UBI, nei confronti della comunità Fudenji si impongono di fatto delle speciali limitazioni: che, per sé, possono costituire un limite alla libertà e all’eguaglianza dei relativi promotori, partecipanti o beneficiari [47]. Tanto più in materia matrimoniale, che spesso si afferma come uno dei settori più strettamente connessi con la personalità spirituale dei nubendi [48].
Si potrebbe comunque obiettare che l’intesa è la base della legittimità costituzionale di una legge che la riguardi, il suo presupposto indefettibile e inalterabile. Motivo per cui, le disposizioni approvate in virtù dell’art. 8 (c. 3) Cost. assumono il rango di legge rinforzata. Una legge che, per queste ragioni, può porsi in concorrenza con le altre diposizioni legislative, comprese quelle sottoposte alla disciplina dell’art. 20 Cost. Ciò significa che, se del caso, la legge ex art. 8 (c. 3) Cost. può legittimare limitazioni nei confronti delle istituzioni o delle associazioni con fine di religione e di culto, purché sancite mediante una intesa, regolarmente stipulata e approvata per legge. Queste affermazioni, però, si pongono in contrasto con un’interpretazione costituzionalmente orientata alla stregua non solo dell’art. 20 Cost., ma anche e soprattutto dell’art. 8 Cost. che, attraverso lo strumento convenzionale (di cui al comma 3), tende ad aumentare le garanzie nei confronti delle confessioni, e non a diminuirle. E ciò per affermare l’eguale libertà dei gruppi confessionali, peraltro in un settore, quello matrimoniale, sempre contemplato sia dalla legge n. 1159/1929 che da tutte le intese tuttora operative esclusa, come si ricordava, quella stipulata dall’UBI nell’aprile 2007.
8. A che cosa serve il decreto di approvazione ex art. 3 della legge 1159/1929?
A queste argomentazioni si potrebbe tuttavia replicare che, per quanto riguarda l’eguale libertà delle confessioni, la mancata approvazione della nomina da parte dell’Amministrazione non determina alcun impedimento: il ministro di culto può comunque esercitare liberamente il suo ministero, in virtù dei poteri conferiti dalla religione di appartenenza, compreso quello di celebrare i matrimoni. L’unico limite sarebbe determinato dall’impossibilità di attribuire a queste celebrazioni effetti civili. Che è poi l’orientamento assunto dal Consiglio di Stato in un noto parere del 2009 [49], prontamente richiamato dal TAR di Parma e dal TAR del Lazio nelle citate sentenze del 2012 [50]. Un orientamento che, al pari di quelli sopra evocati, produce nondimeno effetti indebitamente ultronei, soprattutto se connessi con il caso in esame.
In questo ambito, infatti, si legittima il diniego non tanto perché il riconoscimento degli effetti civili dei matrimoni celebrati dai ministri buddhisti sia in conflitto con la legge n. 245/2012 o in contrasto con la Costituzione [51]. Il rifiuto è giustificato dal fatto che questo riconoscimento non sarebbe funzionale al libero esercizio del ministero pastorale. Una considerazione che, com’è stato giustamente affermato, inevitabilmente spinge l’Amministrazione «sul terreno sdrucciolevole dell’attività interna dei gruppi religiosi», traducendosi in un «delicatissimo accertamento sull’effettiva rilevanza dell’istituto matrimoniale all’interno» della confessione interessata [52]. Con tutto ciò che questo può comportare in termini di laicità dello Stato, di cui è parte integrante il principio di «distinzione degli ordini distinti» [53]: il quale, respingendo «ogni reciproca interferenza» [54], vieta agli amministratori statali l’autonoma – arbitraria – valutazione sull’importanza che il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso può rivestire per qualsivoglia confessione.
Con riferimento specifico al caso in commento, ritenere inefficaci i decreti di approvazione delle nomine può fra l’altro provocare una potenziale discriminazione nei confronti dell’Istituto Fudenji, rispetto a tutte le altre associazioni o istituzioni religiose, incluse quelle che aderiscono a confessioni sprovviste di intese; ancorché la celebrazione dei matrimoni sia una pratica da lunghissimo tempo osservata dalla comunità buddhista di Salso Maggiore Terme, così come documentato – lo si è ricordato in precedenza – in sede di domanda per il riconoscimento della sua personalità giuridica, definita con il D.P.R. del 1999 [55].
9. Conclusioni
Da notare che l’effetto svantaggioso, e potenzialmente discriminatorio, discende paradossalmente da uno dei pochi elementi peculiari che, connotando l’intesa con l’UBI, la distingue dagli altri accordi siglati fino ad ora dallo Stato italiano. In effetti, considerando la pluridecennale prassi esecutiva del dispositivo convenzionale di cui all’art. 8 (c. 3) Cost., l’intesa in questione si differenzia dalle altre non tanto per quello che afferma, quanto piuttosto per ciò che non dichiara: per quello che manca, per l’assenza. Per la mancanza cioè di disposizioni che disciplinino il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio celebrato in forma religiosa.
Le ragioni di questa omissione si legano, in linea di massima, alla specificità buddhista per cui, in relazione all’unione coniugale, generalmente l’interesse si focalizza sul rapporto, in modo peraltro indiretto: mediante il precetto che, con un forte richiamo alla fedeltà, invita a non cadere in preda delle passioni, evitando di avere relazioni sessuali scorrette. Motivo per cui il buddhismo, pur prevedendo una qualche formula di benedizione e quantunque consideri il matrimonio una festa non solo degli sposi ma anche della comunità, solitamente non possiede una forma propria di celebrazione [56]. Solitamente.
Infatti, non è pensabile che fra i 44 affiliati all’UBI non vi siano dei gruppi che, con pari e contraria intensità, celebrino il matrimonio, secondo regole e forme da loro stabilite. Ed è il caso della comunità Fudenji guidata, religiosamente parlando, dai maestri di Dharma prima richiamati. Questa circostanza risalta maggiormente con riferimento al disegno di legge del giugno 2000 per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’UBI [57], il cui impianto normativo è stato trasfuso nell’intesa del 4 aprile 2007. Un impianto che, per stessa ammissione del Governo in carica, è stato «elaborato, per quanto possibile, secondo il modello delle intese già concluse che si è rivelato adattabile alle esigenze delle altre confessioni» [58]. Ciò significa che l’intesa in questione è stata redatta non tanto (o non soltanto) in base ai bisogni della confessione stipulante, quanto in rapporto a un ideal-tipo di accordo, edificato sulla base delle esigenze delle «altre confessioni».
A conferma del fatto che le intese non servono più a tutelare le specificità delle identità confessionali, ma solo a estendere la disciplina di un diritto (para)comune [59], che però non è diventato generale [60]. E mai lo diventerà [61]. Sicché, per le confessioni diverse dalla cattolica allontanarsi dal contenuto standardizzato delle intese può diventare alquanto pericoloso. E l’esempio è fornito proprio dalle questioni riguardanti l’Istituto Fudenji, il quale è ora stretto tra due fuochi: continuare a far parte dell’UBI, rinunciando alla rilevanza civile dei matrimoni celebrati dai propri religiosi; uscire volontariamente dall’UBI, sottoponendosi nuovamente alla legislazione sui culti ammessi.
Si comprende allora l’importanza sottesa al caso dei due maestri di Dharma. Esso ha il merito di accentuare i difetti provocati dalla difficile convivenza fra il dispositivo convenzionale di cui all’art. 8 (c. 3) Cost. e la legislazione comune di fascista memoria. Una legislazione informata a presupposti autoritari di “polizia ecclesiastica”, volta a ottenere delle garanzie di qualità del ministro di culto acattolico [62], del quale lo Stato vuole conoscere e sorvegliare l’attività [63]. Ciò che a sua volta porta ad accentuare i guasti provocati dall’assenza di un modello costituzionale di riferimento: di una legge sulla libertà religiosa [64] attestante un corpus coerente di norme cui rapportarsi per poter verificare la legittimità e l’opportunità di determinate deroghe al diritto comune-generale, secondo quanto stabilito nella (e dalla) Costituzione repubblicana [65].
NOTE
[1] ⬆︎ Ossia «l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario»; Corte cost., sent. 16 luglio 2002, n. 346, in «Giur. cost.», 2002, p. 2615, con nota redazionale di P. Spirito (p. 2621) e nota a sentenza di G. Guzzetta, Non è l’“eguale libertà” a legittimare l’accesso ai contributi regionali delle confessioni senza intesa, pp. 2624 ss. Sul punto A. Albisetti, Il diritto ecclesiastico nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, Giuffrè, 2010, 4 ed., pp. 118 ss.
[2] ⬆︎ In questo senso, la tutela del diritto alla differenza, oltre a promuovere lo sviluppo della personalità (art. 2 Cost.), si legittima mediante il richiamo all’art. 3, c. 2, Cost., ed è volto a «rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana nel settore riguardante la vita religiosa»; S. Lariccia, Intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, Giuffrè, 2006, vol. IV, pp. 3225 ss. Sul punto già P. Rescigno, Persona e comunità. Saggi di diritto privato, Padova, CEDAM, 1987, la cui indagine sul ruolo delle Chiese in una società pluralista «muove naturalmente secondo la traccia dell’art. 2 Cost.» (p. 21), che esorta a resistere alla tentazione delle confessioni «di servirsi dello Stato per assicurarsi una posizione di privilegio» (p. 49): bisogna evitare che una comunità religiosa approfitti «della sua posizione per indurre lo Stato a mortificare ed impedire la professione di fede religiosa» dei suoi appartenenti e «degli appartenenti ad altre comunità» (p. 50). Si veda anche S. Benhabib, The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, trad. it. a cura S. De Petris, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Milano, Cortina, 2006, p. 53; S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 25 e p. 32; M.C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, trad. it. a cura di E. Greblo (con Introduzione di C. Saraceno), Bologna, Il Mulino, 2002; M.C. Nussbaum, Women and Human Development: The Capabilities Approach, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, trad. it. a cura di W. Maffezzoni, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Bologna, Il Mulino, 2001.
[3] ⬆︎ Sicché, «le peculiarità che, nel prospetto costituzionale sulle fonti, caratterizzano quelle di diritto ecclesiastico non si traducono in connotazioni singolari o privilegiarie. Possono, piuttosto, agevolmente ricondursi ad un fondamento di diritto costituzionale comune, la cui radice è rinvenibile nel riconoscimento compiuto dall’art. 2 della Costituzione a favore di tutte le forme di autonomia, in funzione dello svolgimento della personalità dell’uomo e del perseguimento dei suoi diritti inviolabili»; S. Berlingò, voce Fonti del diritto ecclesiastico, in «Digesto delle discipline pubblicistiche», VI, 1994, p. 455. Sul punto si veda anche R. Coppola, Le intese con le minoranze religiose in Italia, in «Coscienza e Libertà», 1990, nn. 16-16 A, p. 87.
[4] P. Bellini, Il diritto di essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità, Torino, Giappichelli, 2007, p. 172. Sul punto cfr. V. Parlato, Legislazione statuale in materia religiosa e normazione pattizia, in «Il Diritto ecclesiastico», 1983, pp. 586 ss., per il quale «solo in un indirizzo laico e pluralista … si possono salvaguardare meglio la libertà e l’eguaglianza religiose, due esigenze fondamentali della persona umana, in uno Stato laico … cioè uno Stato dove l’attività di governo si ponga al servizio della persona umana, anche e soprattutto per gli ideali che hanno radice e fondamento nella spiritualità e dignità dell’uomo». Finalità che, secondo l’Autore, possono essere raggiunte mediante «una normativa speciale per il fenomeno religioso, come occorre una legislazione ad hoc per altri settori importanti della vita pubblica» (p. 597). Si veda anche C. Mirabelli, Osservazioni conclusive, in Le intese tra Stato e confessioni religiose. Problemi e prospettive, Milano, Giuffrè, 1978, pp. 160 ss.
[5] N. Colaianni, voce Intese (diritto ecclesiastico), in «Enc. dir.», Agg. V, 2001, p. 709.
[6] A. S. Mancuso, L’attuazione dell’art. 8.3 della Costituzione. Un bilancio dei risultati raggiunti e alcune osservazioni critiche, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), febbraio 2010, p. 16.
[7] R. Botta, La condizione degli appartenenti a gruppi religiosi di più recente insediamento in Italia, in «Il Diritto ecclesiastico», 2000, I, pp. 370-373.
[8] M.C. Folliero, Libertà religiosa e società multiculturali: la risposta italiana, in «Diritto e Religioni», 2009, n. 1, p. 429.
[9] Lo notava F. Pizzetti che, in veste di Presidente della Commissione per le intese, evidenziava come nel caso dei negoziati che avevano visto come protagonisti i Testimoni di Geova fosse stata proprio questa religione «a rinunciare a sottolineare le proprie peculiarità»; F. Pizzetti, Le intese con le confessioni religiose, con particolare riferimento all’esperienza, come Presidente per la Commissione per le intese, delle trattative con i Buddhisti ed i Testimoni di Geova, in Dall’accordo del 1984 al disegno di legge sulla libertà religiosa. Un quindicennio di politica e legislazione ecclesiastica, reperibile in Presidenza del Consiglio dei Ministri, http://www.governo.it/Presidenza/USRI/confessioni/pubblicazione_indice.html (ultimo accesso 12 maggio 2013), p. 317.
[10] ⬆︎ Ne deriva un pluralismo imperfetto che si afferma mediante una «suddivisione delle Chiese e religioni per fasce di decrescente importanza: 1. la Chiesa cattolica, garantita dal Concordato; 2. le Chiese titolari di intesa, di fatto ammesse a molti dei privilegi che vengono via via riconosciuti alla Chiesa cattolica; 3. le Chiese e religioni ancora sottoposte alla legislazione fascista del ’29-’30, a loro volta suddivise in due categorie: a. confessioni riconosciute sulla base e con i limiti di quella legislazione; b. confessioni non ancora riconosciute»; G. Bouchard, Concordato e intese, ovvero un pluralismo imperfetto, in questi Quaderni, n. 1, 2004, pp. 70-71. Sul punto si veda anche G.B. Varnier, La prospettiva pattizia, in Principio pattizio e realtà religiose minoritarie, a cura di V. Parlato, G.B. Varnier, Torino, Giappichelli, 1995, pp. 1 ss., spec. pp. 8-13.
Un rischio che anni or sono aveva paventato una parte della dottrina. Si vedano per tutti E. Vitali, A proposito delle intese: crisi o sviluppo?, in questi Quaderni, 1997, n. 1, p. 94; S. Ferrari, Pagine introduttive: appunti su riforma incompiuta, in questi Quaderni, n. 1, 1993, pp. 3 ss.; F. Onida, Appunti per una riflessione in tema di attuazione del quadro costituzionale in materia religiosa (a proposito di libertà ed eguaglianza), in «Il Diritto ecclesiastico», 1990, I, pp. 423 ss.; V. Tozzi, I gruppi religiosi e i rapporti con lo Stato, in «Il Diritto ecclesiastico», 1994, I, pp. 223 ss.411
[11] ⬆︎ Sul punto sempre valido T. Mauro, Considerazioni sulla posizione dei ministri di culto acattolici nel diritto vigente, in Studi in onore di Vincenzo del Giudice, Milano, Giuffrè, 1953, pp. 101 ss. Si veda inoltre A. Licastro, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 475 ss.
[12] ⬆︎ D.P.R. del 5 luglio 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale (n. 224) del 23 settembre 1999.
[13] ⬆︎ Art. 7, Statuto dell’UBI; art. 11, legge n. 245/2012, cit.
[14] ⬆︎ Ai sensi dell’art. 10-bis della legge 7 agosto del 1990 (n. 241), secondo il quale «i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti» hanno diritto «di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento».
[15] ⬆︎ TAR di Parma, ordd. del 14 settembre 2010, nn. 163 e 164.
[16] ⬆︎ Su valore normativo dell’intesa non ancora approvata N. Colaianni, voce Intese (diritto ecclesiastico), cit., p. 709, nonché cfr. Consiglio di Stato, sent. 18 novembre 2011, n. 6083.
[17] ⬆︎ TAR di Parma, sentt. 5 maggio 2011, nn. 126 e 127.
[18] ⬆︎ Per il giudice amministrativo parmense, l’approvazione governativa ex art. 3 della legge 1159/1929 non occorre per il compimento degli atti di un culto diverso da quello cattolico; atti che rientrano nella sfera di autonomia della corrispondente confessione religiosa. L’approvazione ministeriale è invece richiesta nei limiti in cui a quegli atti l’ordinamento italiano riconosce effetti giuridici. Quando cioè al ministro di culto acattolico sono conferiti esoneri, facoltà e poteri di natura pubblicistica, non spettanti alla generalità dei cittadini. Il che, senza pregiudicare le libertà costituzionalmente garantite amministranei confronti di tali confessioni, porta a giustificare il controllo statale, esercitabile proprio con il provvedimento ministeriale di “approvazione”: il quale, lungi dal sacrificarne l’attività religiosa del gruppo confessionale interessato, amplia piuttosto la sfera delle prerogative dei ministri nominati, ricollegando agli atti posti in essere nell’esercizio del loro ministero effetti civilmente rilevanti. Sul punto già V. Onida, voce Ministri di culto, in «Enc. giur.», vol. 20, Roma, 1990, pp. 2 ss.. Si veda anche F. Pentroncelli Hübler, Ancora sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nell’ordinamento italiano, in «Archivio giuridico», 1972, pp. 97 ss.
[19] ⬆︎ Sul punto A. Bettetini, Alla ricerca del “ministro di culto”. Presente e futuro di una qualifica nella società multireligiosa, in questi Quaderni, 2000, n. 1, pp. 249 ss., spec. p. 257, nota 22., il quale afferma che questo tipo di indagine è «non solo legittima, ma doverosa qualora, come nel caso di specie, alla qualificazione giuridica segua il conferimento di specifici poteri di natura pubblicistica» (p. 257). L’Autore, tuttavia, non ridimensiona il fatto che, seppur legittima e doverosa, questa «indagine pone alcuni problemi alla luce dell’art. 22 della L. 31 dicembre 1996, n. 675 sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali». Se infatti l’approvazione di cui all’art. 3 della legge 1159/1929 può senz’altro rientrare fra le «espresse disposizioni di legge» che autorizzano il trattamento da parte di un soggetto pubblico dei «dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose ... l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso», più difficilmente «rientrano in questa ipotesi le indagini dirette a verificare se un soggetto possa essere qualificato in generale come ministro di culto, per finalità diverse rispetto a quelle previste dalla disposizione della legge sui culti ammessi ora richiamata, non essendovi al riguardo alcuna norma autorizzatoria». Si ritiene pertanto «necessario che in queste ipotesi sia richiesto il consenso scritto dell’interessato, nonché l’autorizzazione del Garante ai sensi del 1° comma del medesimo art. 22. Il che, come si può facilmente intuire, complica non poco le ricerche e le dilata comunque nel tempo».
[20] ⬆︎ Sul punto si veda Consiglio di Stato in sede consultiva, Sez. I, 23 settembre/22 ottobre 2009, n. 2758-6357.
[21] ⬆︎ In effetti, la competenza territoriale a conoscere delle controversie relative a simili atti spetta al TAR del Lazio, sede di Roma, non ricorrendo l’ipotesi dell’art. 13 (c. 1) del nuovo Codice del processo amministrativo («Il tribunale amministrativo regionale è comunque inderogabilmente competente sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di pubbliche amministrazioni i cui effetti diretti sono limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede») e, nel previgente regime, dell’art. 3 (c. 2), della legge n. 1034 del 1971 («Per gli atti emessi da organi centrali dello Stato o di enti pubblici a carattere ultraregionale, la cui efficacia è limitata territorialmente alla circoscrizione del tribunale amministrativo regionale … la competenza è del tribunale amministrativo regionale medesimo»); così come è stato ripetutamente avvertito dalla giurisprudenza per gli atti inerenti il riconoscimento e/o diniego dello status di una persona, se ed in quanto provenienti da un organo centrale dello Stato e aventi efficacia non circoscritta ad un dato ambito territoriale (sul punto si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. 24 aprile 2009 n. 2561, per un caso di diniego della cittadinanza italiana). Ora, la giurisprudenza è stata chiamata chiarire se il nuovo regime di competenza territoriale inderogabile, ivi compresa la rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza, si applichi solo ai giudizi promossi dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice del processo amministrativo – approvato con Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 – o sia applicabile anche ai giudizi in corso alla data del 16 settembre 2010, essendosi infine pronunciata per la prima soluzione (si veda sul punto il Consiglio di Stato, Ad. plen., ord. 7 marzo 2011, n. 1). Il che, per quanto riguarda il caso di specie, comporta che il TAR di Parma deve dichiarare il difetto di competenza, limitatamente all’impugnativa del provvedimento di diniego adottato il 21 dicembre 2010 e censurato con atto di “motivi aggiunti”. Deve altresì indicare quale competente a decidere la controversia il TAR del Lazio, sede di Roma, ai sensi dell’art. 15 (c. 1) e dell’art. 16 (c. 2) cod.proc.amm. Mentre sfugge alla rilevabilità d’ufficio il difetto di competenza inerente l’impugnativa del provvedimento ministeriale di rigetto del 30 aprile 2010, per essere questa intervenuta prima che entrasse in vigore il Codice del processo amministrativo.
[22] ⬆︎ TAR del Lazio, sent. 21 maggio 2012, n. 4544, e sent. 30 maggio 2012, n. 4889.
[23] ⬆︎ TAR del Lazio, sentt. 4544/2012 e 4889/2012, cit.
[24] ⬆︎ La nota informativa è pubblicata sul sito della Prefettura UTG di Avellino sotto la dicitura “Circolare (Prot. 3672/Area IV) avente a oggetto la Comunicazione concernente le Confessioni religiose che hanno stipulato intese ex art. 8, 3° comma, della Costituzione, approvate con legge.
[25] ⬆︎ Ibidem.
[26] ⬆︎ Va comunque ricordato che, nel momento in cui si scrive, il Ministero non ha dato corso alla comunicazione nei confronti degli interessati (art. 7 legge n. 241/1990) circa l’avvio del procedimento di ritiro o di revoca ovvero di cessazione degli effetti del decreto del 4 gennaio 2013, essendosi invece limitato a inviare la suddetta nota a tutte le Prefetture italiane.
[27] ⬆︎ TAR del Lazio, sentt. 4544/2012 e 4889/2012, cit.
[28] ⬆︎ Per cui ogni atto va valutato secondo la norma vigente al momento del suo compimento. Sul punto fra gli altri R. Caponi, Tempus regit processum. Un appunto sull’efficacia delle norme processuali nel tempo, in «Rivista di diritto processuale», 2006, pp. 449 ss., e alla bibliografia ivi riportata.
[29] ⬆︎ Ed è quanto si afferma nell’art. 21-quinquies della legge 7 agosto 1990 (n. 241), così come modificata dalla legge 11 febbraio 2005, concernente le norme generali sull’azione amministrativa.
[30] ⬆︎ R. Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja, G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro italiano, 1974, pp. 103 ss.
[31] ⬆︎ Consiglio di Stato, sent. 22 marzo 2012, n. 1632. Sul punto si veda anche TAR Abruzzo, sede di Pescara, sent. 18 maggio 2011, n. 283.
[32] ⬆︎ Consiglio di Stato, sent. 29 settembre 2010, n. 7187; Consiglio di Stato, sent. 3 settembre 2009, n. 5195.
[33] ⬆︎ Art. 24, legge n. 245/2012, cit.
[34] ⬆︎ L’Unica eccezione è rappresentata dalla legge 8 marzo 1989, n. 101, di approvazione dell’intesa stipulata il 27 febbraio 1987 dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane.
[35] ⬆︎ Art. 26, c. 1, legge n. 245/2012, cit.
[36] ⬆︎ Sul punto F. Bellomo, Diritto amministrativo. Vol. II. Attività, Padova, CEDAM, 2009, pp. 329 ss.
[37] ⬆︎ Per vero, questa disciplina è prevista anche nell’intesa siglata (4 aprile 2007) dai Testimoni di Geova, ma non ancora approvata per legge.
[38] ⬆︎ Un’iniziativa che, a sua volta, era stata stimolata da una decisione della Giunta per il Regolamento della Camera dei Deputati (Resoconto della Giunta per il Regolamento del 28 febbraio 2007, reperibile in www.camera.it, p. 35, col. 1, su cui J. Pasquali Cerioli, Il progetto di legge parlamentare di approvazione delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica: nuovi orientamenti e interessanti prospettive, in Rivista telematica [www.statoechiese.it], marzo 2010, pp. 1 ss.). Facendo leva su questo nuovo orientamento, due senatori della Repubblica, Lucio Malan (PDL) e Stefano Ceccanti (PD), presentano progetti di legge di approvazione delle intese stipulate nell’aprile 2007, ai quali succedono subito dopo i disegni di leggi del Governo Berlusconi. Riuniti con quelli – del resto identici – di derivazione parlamentare, i progetti governativi vengono così assegnati alla Commissione Affari costituzionali in sede deliberante, presso la quale la dialettica cooperazione fra Governo e Parlamento è rilanciata con la nomina dei senatori Galan e Ceccanti a relatori. I due politici si ritrovano così ad accompagnare i disegni di legge riproduttivi delle intese stipulate nell’aprile 2007, inclusa quella con l’UBI, definitivamente approvata in limine della XVI legislatura: lo scioglimento delle Camere è infatti formalizzato con il D.P.R. 22 dicembre 2012, n. 225; mentre l’approvazione dell’intesa con l’UBI è dell’11 dicembre 2012; legge, questa, promulgata il 31 dicembre 2012 e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 17 gennaio 2013.
[39] ⬆︎ Si veda sul punto Consiglio di Stato, sent. 18 settembre 2008, n. 4498. Si veda anche R. Giovagnoli, M. Fratini, Le nuove regole dell’azione amministrativa al vaglio della giurisprudenza. Invalidità e autotutela, Milano, Giuffrè, 2007, tomo II, pp. 478 ss.
[40] Riapprovato con il D.P.R. 20 marzo 2009. Il nuovo Statuto è stato peraltro registrato dalla Corte dei Conti il 26 maggio 2009, registro n. 6, foglio n. 58, in Gazzetta Ufficiale del 22 luglio 2009, n. 168.
[41] Sul punto si veda il Parere favorevole del Ministero interno all’avvio delle trattative per la stipulazione di una intesa con l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, 11 aprile 2001, in Camere dei Deputati, Servizio Studi, Libertà religiosa – stipulazione delle intese, reperibile in http://legxv.camera.it. (ultimo accesso 16 marzo 2013).
[42] TAR del Lazio, sentt. 4544/2012 e 4889/2012, cit.
[43] Ibidem.
[44] Art. 26 (c. 1), legge 245/2012, cit.
[45] Sulla questione la letteratura è piuttosto ampia. Per tutti si vedano quanto da ultimo affermato da V. Tozzi, Le confessioni religiose senza intesa non esistono, in Aequitas sive Deus. Studi in onore di Rinaldo Bertolino, Torino, Giappichelli, 2011, pp. 1033 ss.; N. Colaianni, Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianze e differenze nello Stato costituzionale, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 153 ss.
[46] G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto civile e religioni, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 72 ss.
[47] F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, Agg. a cura di A. Bettetini, G. Lo Castro, Bologna, Zanichelli, 2012, pp. 229 ss.; A. Bettetini, Commento all’art. 20 Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, UTET, 2006, vol. I, pp. 441 ss.; M. Ricca, Art. 20 della Costituzione ed enti religiosi: anamnesi e prognosi di una norma “non inutile”, in Studi in onore di Francesco Finocchiaro, Padova, CEDAM, 2000, pp. 1557 ss.; P. Di Marzio, L’art. 20 della Costituzione. Interpretazione analitica e sistematica, Torino, Giappichelli, 1999, spec. pp. 12 ss. Si veda inoltre S. Fiorentino, Gli enti ecclesiastici e il divieto di discriminazione, in Nozioni di diritto ecclesiastico, a cura di G. Casuscelli, Torino, Giappichelli, 2006, pp. 57 ss.
[48] A. Supiot, Homo juridicus. Essai sur la fonction anthropologique du Droit, Paris, Édition du Seuil, 2005, trad. it. a cura di B. Ximena Rodríguez, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del Diritto, Milano, Mondadori, 2006, pp. 4 ss.; N. Colaianni, I nuovi confine del diritto matrimoniale tra istanze religiose e secolarizzazione, in «Rivista di diritto privato», 2009, n. 4, pp. 10 ss.
[49] Consiglio di Stato, sez. I, 23 settembre 2009, affare n. 2758.
[50] TAR di Parma, sentt. nn. 126/2011 e 127/2012, cit.; TAR del Lazio, sentt. 4544/2012 e 4889/2012, cit.
[51] Atteso che con una giurisprudenza risalente, e oramai consolidata, la Corte costituzionale ha ribadito che, in mancanza delle intese, i rapporti fra Stato e confessioni diverse dalla cattolica continuano a essere regolati dalle norme vigenti (e cioè dalla legge del 1929 e dal Regolamento del 1930) «nella parte che ne rimane in vita, in quanto non importa lesione della libertà di culto costituzionalmente garantita»; Corte cost., sent. 24 novembre 1958, n. 59, in «Il Diritto ecclesiastico», 1959, II, pp. 115 ss., con nota di F. Finocchiaro, Note intorno ai ministri di culto acattolici ed ai poteri dell’autorità in relazione alla libertà religiosa, nonché Corte cost. sent. 18 marzo 1957, n. 45, in S. Domianello, Giurisprudenza costituzionale e fattore religioso (1957-1986), Milano, Giuffrè, 1987, pp. 99 ss.
[52] A. Ferrari, Libertà religiosa e nuove presenze confessionali (ortodossi e islamici): tra cieca deregulation e super-specialità, ovvero del difficile spazio per la differenza religiosa, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), luglio 2011, pp. 10-11, nota 58.
[53] Così come definito dalla Corte cost., sent. 8 ottobre 1996, n. 334, in «Giur. cost.», 1996, pp. 2919 ss.; una sentenza che, rispetto al principio supremo della laicità, è definita «da manuale»; N. Colaianni, La fine del confessionismo e la laicità dello Stato. Il ruolo della Corte costituzionale e della dottrina, in «Politica del diritto», 2009, n. 1, p. 45.
[54] G. Casuscelli, La rappresentanza e l’intesa, in Islam in Europa / Islam in Italia. Tra diritto e società, a cura di A. Ferrari, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 309.
[55] Sul punto va notato infatti che, come è noto, i gruppi religiosi diversi da quello cattolico hanno a disposizione due principali modelli organizzativi, quello pubblicistico e quello di stampo privatistico. Il primo fa leva sulla legislazione sui culti ammessi: si tratta di un modello incardinato sulla personalità giuridica degli enti morali, connotato da forte specialità e, grazie all’interpretazione giurisprudenziale costituzionalmente orientata, da una sostanziale autonomia per gli enti interessati. Il secondo può invece concretizzarsi con o senza il riconoscimento della personalità giuridica, ed è privo di specialità: di conseguenza, esso è meno garantista nei confronti dei profili peculiari e specifici dell’autonomia della formazione religiosa interessata. E questo spiega perché, per quanto riguarda il primo modello (pubblicistico), è ancora oggi richiesta la forma del D.P.R., e quindi la delibera del Consiglio dei Ministri, affidata all’attenzione del Sottosegretario incaricato della predisposizione dell’ordine del giorno. A ciò si aggiunga che, ancorché formalmente non più obbligatoria (ma, per dir così, cautelativa), dopo la “riforma Bassanini” anche i pareri del Consiglio di Stato sono tornati a costituire una tappa essenziale della procedura di riconoscimento. Sul punto si veda, da ultimo, A. Ferrari, Libertà religiosa e nuove presenze, cit., pp. 10-11. Si veda anche S. Berlingò, Enti ecclesiastici – Enti delle Confessioni religiose, in Enciclopedia giuridica de “Il Sole – 24 Ore”, vol. VI, 2008, pp. 3-5; A.G. Chizzoniti, Il testo unico in materia di documentazione amministrativa. Primi spunti di riflessione per l’ecclesiasticista, in questi Quaderni, 2001, n. 1, pp. 495 ss.
[56] Sul punto si vedano per tutti O. Botto, Buddha e il buddhismo, Milano, Mondadori, 1984, pp. 39 ss.; S. Batchelor, Il risveglio dell’occidente, Roma, Ubaldini, 1995, pp. 235 ss.; M. Augé, voce Religione, in Aa.Vv., Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, 1980, tomo XI, pp. 893 ss.; A.W. Watts, Buddhism: The Religion of No-Religion, Boston, Tuttle Publishing, 1996, trad. it. a cura di V. Hefti, Buddhismo. La religione della non-religione, Como, Edizioni Red, 1999, p. 97; F.T. Guareschi, Sapienza d’Oriente e d’Occidente. Cristianesimo, Buddhismo, Scienza contemporanea, Rimini, Ed. Il Cerchio, 1998, pp. 55 ss.
[57] Su cui già S. Angeletti, Brevi note di commento all’Intesa con l’Unione Buddhista Italiana, in «Il Diritto ecclesiastico», 2001, p. 978.
[58] Camera dei Deputati, Relazione al disegno di legge del 25 maggio 2000 sulla base dell’intesa stipulata fra lo Stato e l’Unione Buddhista il 20 marzo 2000, in Atti parlamentari della Camera dei Deputati, 2000, n. 7023, p. 2.
[59] N. Colaianni, Le intese nella società multireligiosa: verso nuove disuguaglianze?, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 19 del 2012, p. 6.
[60] Ovvero un diritto che, in quanto generale, ha «ad oggetto classi di situazioni possibili e pertanto suscettibile di indefinita applicazione»; V. Crisafulli, voce Fonti del diritto (dir. cost.), in «Enc. dir.», 1968, p. 948. Sul punto anche M. Ricca, Legge e Intesa con le confessioni religiose: sul dualismo tipicità-atipicità nella dinamica delle fonti, Torino, Giappichelli, 1996, spec. pp. 25 ss.; e il sempre valido saggio di F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, Soc. ed. del Foro italiano, 1951, pp. 42 ss.
[61]> E. Vitali, A proposito delle intese: crisi o sviluppo?, in questi Quaderni, 1997, n. 1, p. 94; S. Ferrari, Pagine introduttive: appunti su riforma incompiuta, in questi Quaderni, 1993, I, pp. 3 ss.; F. Onida, Appunti per una riflessione in tema di attuazione del quadro costituzionale in materia religiosa (a proposito di libertà ed eguaglianza), in «Il Diritto ecclesiastico», 1990, I, pp. 423 ss.; V. Tozzi, I gruppi religiosi e i rapporti con lo Stato, in «Il Diritto ecclesiastico», 1994, I, pp. 223 ss.; G. Bouchard, Concordato e intese, ovvero un pluralismo imperfetto, in questi Quaderni, n. 1, 2004, pp. 70-71. Sul punto anche G.B. Varnier, La prospettiva pattizia, in Principio pattizio e realtà religiose minoritarie, a cura di V. Parlato, G.B. Varnier, Torino, Giappichelli, 1996, pp. 1 ss., spec. pp. 8-13; S. Bordonali, Verifica e revisione delle intese, ivi, pp. 130 ss., spec. pp. 132-136.
[62] Lo attesta a chiare lettere la relazione del Guardasigilli dell’epoca, lì dove si legge che va sempre tenuto nella giusta considerazione il gradimento, da parte del Governo, dei ministri di culto diverso da quello cattolico: poiché «la loro influenza sulla coscienza dei propri fedeli è sempre importantissima è particolarmente delicata anche sotto il punto di vista politico»; cit. in V. Del Giudice, Codice delle leggi ecclesiastiche, Milano, Giuffrè, 1952, p. 303.
[63] Lo Stato si pone qui in un’ottica tipicamente neo-giurisdizionalista, ma solamente nei confronti dei culti acattolici, rispetto ai quali si arroga la pretesa di definire le attività religiose separandole da quelle non religiose, come emerge chiaramente da T. Mauro, Ministero dell’Interno. Direzione Generale degli Affari di Culto. Appunto per S.E. il Direttore generale. Roma, 1° aprile 1955, in Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulle libertà religiose, a cura di V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 31-53, spec. pp. 40-43.
[64] Come peraltro fa intendere la Corte cost. sent. 27 aprile 1993, n. 195, in «Il Foro.it», 1994, I, cc. 7 ss. con nota di N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa. Sui vari (falliti) tentativi parlamentari di introdurre nel nostro ordinamento una legge sulla libertà religiosa e sulla necessità di approvarla, per tutti si veda il lavoro collettaneo a cura di V. Tozzi, G. Macrì, M. Parisi, Proposta di riflessione per l’emanazione di una legge generale sulle libertà religiose, cit. In senso opposto M. Canonico, L’idea di una legge generale sulla libertà religiosa: prospettiva pericolosa e di dubbia utilità, in Rivista telematica (www.statoechiese.it), gennaio 2010, spec. pp. 5-7, al quale risponde V. Tozzi, Necessità di una legge generale sulle libertà religiose (risposta a Marco Canonico), in ivi, settembre 2010, pp. 1-23.
[65] Come del resto aveva auspicato la Corte costituzionale sin da suoi primissimi orientamenti giurisprudenziali: «in difetto di altre norme da emanarsi a seguito di intese», i rapporti fra Stato e Chiese «continuano ad essere regolati dalle norme vigenti, nella parte che ne rimane in vita, in quanto non importa lesione della libertà di culto costituzionalmente garantita. E ciò senza considerare che il potere di questa Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi non può trovare ostacolo nella carenza legislativa che, in ordine a dati rapporti, possa derivarne; mentre spetta alla saggezza del legislatore, sensibile all’impulso che naturalmente proviene dalle sentenze di questa Corte, di eliminarla nel modo più sollecito possibile» (Corte cost. sent. 24 novembre 1958, n. 59, in «Giur. cost.», 1958, pp. 898 ss., nonché in «Il Diritto ecclesiastico», 1959, II, pp. 25 ss., con nota di F. Finocchiaro, Note intorno ai ministri di culti acattolici ed ai poteri delle autorità in relazione alla libertà religiosa). Invito che la medesima Consulta aveva rivolto pochi mesi prima ai «responsabili della funzione legislativa», chiamati anche qui «ad eliminare la lacuna provocata dalla non aderenza alla Costituzione della disciplina in vigore» (Corte cost., sent. 19 giugno 1958, n. 36, in «Giur. cost.», 1958, pp. 491 ss.). Divenuti sempre più pressanti, questi inviti della Corte si sono via via tramutati in “denunce verbali”, che hanno messo in evidenza «la perdurante inerzia del legislatore» (Corte cost., sent. 18 ottobre 1995, n. 440, in «Foro it.», 1996, I, cc. 30-37, con nota di N. Colaianni, La bestemmia “ridotta” e il diritto penale laico). Si è così giunti al punto che gli stessi giudici della Consulta si sono visti costretti a intervenire direttamente in materia con pronunce di accoglimento per la mancata modifica di norme penali che rappresentavano «un anacronismo al quale non ha in tanti anni posto rimedio il legislatore» (Corte cost., sent. 20 novembre 2000, n. 508, in «Giur. cost.», 2000, pp. 3965 ss.; sul punto si veda G. Casuscelli, L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di vilipendio della religione, in www. olir. it, maggio 2005, pp. 1-13). Motivo per cui, «la Repubblica è … tenuta a modificare in via unilaterale la pregressa legislazione del 1929 e 1930 sui “culti ammessi” per tutte quelle parti che si pongono come ostacoli di ordine sociale»: quelle parti che lo Stato italiano «ha il compito di rimuovere (art. 3, 2° co.) in quanto, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (G. Peyrot, voce Confessioni diverse dalla cattolica, in «Digesto delle discipline pubblicistiche», III, 1989, p. 358). Dipende da questa legge unilaterale «il compimento della riforma avviata nel 1984 con l’Accordo di Villa Madama e l’intesa con la Tavola valdese, e il pieno inserimento del nostro ordinamento tra quelli più moderni e avanzati, e dipende da essa se tutte le Confessioni religiose potranno avere la certezza di una condizione giuridica paritaria che coinvolga i diversi aspetti della loro organizzazione e delle loro attività» (C. Cardia, Concordato, intese, laicità dello Stato, in questi Quaderni, 2004, n. 1, p. 30). Insomma, «solo un intervento razionalizzatore e riformatore del sistema delle fonti potrà creare, a livello costituzionale, le “condizioni per una nuova e più efficiente tassatività”, e specificare le regole e le procedure che la governano, al fine di garantire speditezza e semplificazione non tanto e non solo dell’azione di governo, quanto del processo di inveramento dei principi supremi dell’ordine costituzionale» (G. Casuscelli, Il pluralismo in materia religiosa nell’attuazione della Costituzione ad opera del legislatore repubblicano, in Diritto e religione in Italia. Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, a cura di S. Domianello, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 41).