Le difficoltà della libertà religiosa nel quadro multietnico europeo

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Video e testo dell'intervento del Prof. Aldo Natale Terrin, Pontificio Istituto di Liturgia Pastorale, Padova, al Convegno Internazionale Diritto e libertà di credo in Europa, un cammino difficile, tenuto a Firenze il 18-19 gennaio 2018.

Le difficoltà della libertà religiosa nel quadro multietnico europeo

A proposito delle minoranze religiose

Introduzione

Ogni società e ogni cultura diventano sempre più multietniche. Non esiste più un popolo che sia omogeneo, che sia figlio di una sola terra, che abbia una sola lingua, che abbia costumi condivisi.

Su questo sfondo del multiculturalismo, all'inizio del XXI sec. se guardiamo al nostro mondo come si presenta, notiamo una contraddizione o una discrasia profonda: da una parte la “pluralità umana”: popoli, culture, religioni, idee diverse si mescolano sempre più al punto che è difficile una composizione e una chiarificazione delle rispettive posizioni in un vivere comune, in una human togetherness (Arendt). Dall'altra, notiamo che i popoli, però, cercano sempre più anche una loro distinctness, un carattere distintivo. Si direbbe che il “globale” e il “locale” già descritti anni fa da C. Geertz[1] sono sempre più in conflitto e non riescono più a riconoscersi. Forse la spersonalizzazione e l'omologazione di popoli e di culture tramite i mercati crea per opposizione il desiderio altrettanto forte di una nuova identificazione e identità.

Dobbiamo infatti ammettere che oggi vi è una multi-etnicità non solo dell'Europa, ma in ogni singolo paese. Sotto questa etnicità plurima, siamo obbligati per forza di cose a “pensare in grande” e “in largo” fino a prefigurare un post-nazionalismo di fatto. C'è una specie di “mondializzazione” attraverso l'apertura della circolazione degli uomini e delle merci, la flessibilità dei mercati, la richiesta di lavoro che non permette più a un popolo di essere un popolo[2].

I popoli dell'Africa e dell'Asia, ad esempio, sognano spesso un paradiso occidentale. Ma il trasferimento di popoli comporta anche inevitabilmente uno “sradicamento” rispetto alla cultura d'origine e il difficile impianto di culture diverse nel mondo europeo occidentale. Anche l'Italia, come gli altri paesi, sta diventando sempre più un paese “multietnico” dove convivono religioni e popoli diversi.

Data questa situazione socio-culturale, è evidente che nascono inevitabilmente difficoltà di convivenza tra culture e religioni: problemi che si sviluppano anche e in particolare a partire dal diritto di un popolo e dal diritto dei singoli. E infatti, dato che i singoli appartengono a religioni diverse, le difficoltà nascono anche dal “diritto divino” a cui si ispirano gli appartenenti a religioni diverse e poi in genere dai “diritti dell'uomo”, democrazie, stati liberali con le loro peculiarità.

Nel tempo, per evitare contrapposizioni e guerre, per esempio le nazioni europee, segnate tradizionalmente dalla tradizione cristiana, hanno cercato di distinguere tra “regno di Dio” e “regni degli uomini”, tra lo “spirituale” e il “temporale”, tra “Dio” e “Cesare”, tra “Chiesa” e “Stato”. Questa situazione si è tradotta giuridicamente in regimi politici dove la religione non pretende di inglobare la comunità e dove i poteri sono distinti.

Ma il problema si pone non appena entrano in scena i musulmani, ad esempio. Che cosa fare con l'idea di Umma con la quale religione e vita sociale formano un tutt'uno, a partire da una “sottomissione” (islam) senza distinzioni? Se i musulmani non accettano la secolarizzazione dello Stato nascono grandi interferenze e contrasti. Se la prospettiva nazionalistica custode di una forte identità islamica prevale, nascono grandi problemi.

D'altra parte, come si sa, Talal Asad – un grande studioso e antropologo – ha criticato la distinzione tra “religioso” e “secolare” con buoni motivi nella misura in cui il “secolare domanda una forma di cittadinanza che trascende l'identità religiosa”, creando forme di nuovo dualismo.

Di qui nasce la difficoltà di vivere insieme. Secondo Talal Asad infatti resta valida l'importanza delle religioni per il formarsi delle nazioni. E in seguito a ciò stiamo assistendo semmai al fallimento del processo di secolarizzazione, per cui si ripropone con più forza la spinta delle religioni[3].

In termini più generali si potrebbe dire che esiste un difficile rapporto tra “universalismo” (leggi che devono valere per tutti) e “singolarità”.

Ma come combinare universalismo di culture e popoli e singolarità, nello stesso tempo, con l'esigenza di trovare e di vivere tranquillamente nel proprio habitat?

Il compito che mi prefiggo in questo breve saggio è di illustrare brevemente le difficoltàdal punto di vista delle diverse appartenenze religiose.

Possiamo raccogliere tali difficoltà intorno al dilemma fondamentale: tra religioni che si fanno portatrici del diritto di Dio e società basate sulla democrazia e sui diritti umani, in un contesto laico c'è una possibilità di conciliazione?

1. Il pluralismo religioso può stare insieme con il concetto di “nazione” come insieme di valori condivisi? Piccolo sguardo sull'attualità

Il problema si pone in tutta la sua realtà. Da una parte, il pluralismo culturale e religioso chiede un'apertura ai valori degli altri e alle aspettative degli altri, ricordando il principio di A. Giddens secondo cui “anche noi siamo altri per gli altri”.

Si richiede dunque un'apertura “universalistica” in modo da condividere i valori propri di culture diverse. D'altro lato, sembra che non sia possibile rinunciare a quella che è la nostra identità, perché significherebbe perdere il proprio mondo e dunque abbiamo bisogno di mantenere la nostra memoria e la nostra storia e la nostra religione.

E infatti è difficile parlare di “interculturalità”: ciascuno porta con sé i suoi valori, ma non nasce una condivisione, non si crea se non in qualche raro caso un network di “significati disponibili”.

La multiculturalità non diventa “interculturalità”, non diventa quella forma di “coscienza collettiva”(Bohannan): il “multi” non diventa “inter”. E anche la globalizzazione porta all' “inter” dei mercati, ma non della cultura e dei popoli e delle religioni. Se i circuiti dei mercati sono planetari non lo è altrettanto il circuito della cultura e delle proprie radici storico-culturali.

2. Che cos'è una “nazione” e un “popolo”.

Eppure una nazione comporta quasi per definizione una qualche unità.

Secondo John Rawls la nazione è un “insieme di valore condivisi”. L'espressione inglese suona: “overlapping consensus”[4].

Mi sembra che la definizione di Rawls ricada in quella più comune secondo cui una nazione va vista come una “storia condivisa”: è una definizione semplice ma interessante. La nazione è una storia condivisa dove di fatto si danno un insieme di tradizioni, di memoria, di storia, di lingua: tutte realtà che sono comuni e condivise. Naturalmente non si tratta solo di idee e di saperi astratti, ma anche di una geografia comune: città e paesi, chiese e cattedrali, castelli e palazzi, campagne e strade: si tratta di avere davanti agli occhi i “luoghi della memoria”.

Io partirei da questo aspetto più determinante, in qualche modo, e costituito dai luoghi che abitiamo. Una nazione e un popolo sono una “storia condivisa a partire dai luoghi”.

Il localismo e l'identità di un popolo sembra dunque difficilmente superabile.

Ma anche la lingua costituisce un punto fondamentale di incontro e di convergenza di una cultura e di un popolo. La difficoltà di integrazione con un luogo quando si parla una lingua diversa è infinita. Il nostro linguaggio è il nostro mondo, diceva Wittgenstein, ma se parliamo lingue diverse, viviamo in mondi “differenti”, anche se ci troviamo fianco a fianco gli uni agli altri.

Se non si parla la stessa lingua, non ci si capisce: si vive in mondi differenti, non vi è più unità neppure nei costumi e nelle tradizioni.

3. Cultura e religione come momento di unità e nello stesso tempo come “problema”.

“Relativismo” o “etnocentrismo”?

Territorio, lingua, tradizioni, memoria, autorità si costruiscono intorno al concetto di cultura. Dunque la cultura, la nazione a livello politico è il mondo che ha bisogno di tracciare dei confini per mantenere una sua unità.

Ora il problema è dove porre questi confini della cultura: il confine va posto tra popoli, classi, generazioni, o tra i singoli? Non sappiamo più distinguere tra i confini della società e i confini che sono propri di noi stessi.[5]

C’è la difficoltà di tenere insieme punti di vista differenti.

Il concetto di “fusione di orizzonti” (Horizontverschmelzung) tanto caro a Gadamer e principio di ogni ermeneutica significativa in realtà è una metafora impossibile.

Gli orizzonti infatti in quanto fenomeno di percezione non si possono fondere poiché si tratta di uno sguardo determinato e fisso sul mondo. Un orizzonte vale nella misura in cui parte da un determinato sguardo. Nella misura in cui limita un altro sguardo sul mondo è legato a quel punto dal quale si guarda, per cui risulta impossibile vedere due orizzonti contemporaneamente.

Naturalmente in Gadamer si tratta dell'orizzonte temporale e si parla della storicità del comprendere. E ha un suo significato quando si parla di “coscienza storica”, ma a livello culturale il problema diventa più difficile se non impossibile. Infatti il limitare un popolo e una cultura esige che ci sia “coerenza”, “totalità di vedute”, “omogeneità”, e “comunità”. Ma queste caratteristiche diventano sempre più difficili a trovarsi nelle culture multietniche.

Si può partire, allora e forse, dal presupposto di R. Rorty, il quale in Ironia, Contingenza e Solidarietà[6] si fa promotore di un “gaio multiculturalismo”, che rispecchia a sua volta l'idea di J. Luc Nancy il quale parla di “lode alla mescolanza”, affermando che dobbiamo lavorare a partire dalla rete di lavoro in cui ci troviamo, a partire dalle comunità con cui ora ci identifichiamo”, partendo dal presupposto che ogni tradizione è razionale e morale tanto quanto ogni altra.

Ma è possibile vivere socialmente e culturalmente con questo sguardo aperto a tutte le problematiche e senza un particolare punto di vista?

C. Geertz risponde a Rorty in un passaggio di The Uses of Diversity e nota altrettanto ironicamente che non è facile confrontarsi con un mondo in cui ci siano ancora i “tagliatori di teste” (Filippine), o per esempio dove vigono i sistemi matrilineari, o convivere con la gente che crede nelle predizioni a partire dalle viscere dei maiali. Le differenze sono destinate a rimanere tanto quanto è vero che un francese “non mangerà mai burro salato”,e in genere altri popoli non si auspicheranno mai che ritornino i vecchi bei (!) tempi in cui la vedova veniva bruciata sul rogo insieme al marito defunto[7].

È chiaro che alla base vi è un etnocentrismo che potrebbe essere ritenuto miope se visto dall'esterno, ma visto all'interno appare un fatto insuperabile. Ancora Geertz scrive per quanto riguarda l'etnocentrismo: “il disagio con l'etnocentrismo non è che affida a noi stessi le nostre proprie responsabilità. Siamo così tanto affidati a noi stessi per definizione quanto il nostro proprio mal di testa. Il vero disagio con l'etnocentrismo è che ci impedisce di scoprire in quale specie di angolo (…) noi siamo confinati nel mondo: ci impedisce di capire che sorta di pipistrelli noi veramente siamo.”[8]

Se il mondo incomincia ad essere sempre più un gran “bazar”, per poter vivere meglio nel proprio mondo – se ancora si può parlare di “proprio mondo” - occorre maggiore “etnocentrismo” o serve invece dare più spazio al “relativismo”? Occorre liberare maggiormente le frontiere del proprio ambiente o delimitare di più il proprio campo?

3.1. Il modello del relativismo cade in contraddizione

La politica dell'uguale dignità di tutti gli esseri umani non è così innocua come si crede. Per Kant la pari dignità si basava sul fatto che siamo “agenti razionali” capaci di governare la nostra vita secondo criteri logico-razionali.

Ora proprio a partire dalla pari dignità e da pari diritti sembra che si cada in una contraddizione. Infatti il principio della pari dignità e dell'uguale rispetto esige di trattare gli esseri umani in modo “cieco” alle differenze. Dunque occorre un relativismo culturale per trattare tutti in maniera liberale. Ma dobbiamo riconoscere anche le “diversità” per attribuire agli altri quello che a loro spetta, in quanto diversi da noi. E proprio qui si crea una contraddizione: attribuendo pari dignità non si rispetta la diversità tra le culture e le religioni; riconoscendo le diversità non si può avere la sufficiente attenzione a trattare tutti in modo paritario[9]. Caso emblematico è ancora il mondo islamico.

Per l'Islam, il liberalismo occidentale della pari dignità, che separa religione e politica è figlio di un atteggiamento laico e post-religioso e non viene concepito affatto come una “neutralità culturale”, ma come qualcosa di dannoso e fonte di grandi equivoci. Sembra infatti che si avalli l'indifferenza ai valori. È ancora una tesi di Talal Asad[10]. Dunque non se ne esce facilmente da una tale concezione. Il liberalismo finisce per non rispettare i valori e le religioni(!).

4. La crisi del modello europeo di società

Il sistema mondo è stato centrato sull'Europa, come ritiene Wallerstein[11], sistema che però adesso sta cedendo e sta frammentandosi.

Alla difficoltà di capire il senso della cultura e del rapporto tra i popoli nella società odierna si aggiunge anche di fatto il problema della crisi del modello europeo.

Per esempio, nella società europea si è andati nella direzione della separazione tra religione e politica. Si pensava che tutto il mondo avrebbe seguito questa distinzione di separazione tra politica e religione. Oggi ci si accorge che non è così. L'Europa non è più al centro del mondo e non può più dettare leggi. Non può dettare leggi neppure distinguendo tra religione e politica. E questo può diventare un aspetto tragico.

Il post-colonialismo ha fatto capire come l'Europa di oggi diventi marginale rispetto a quello che era nel passato. Ci sono grandi autori e sociologi soprattutto indiani che ne parlano sono i teorici del post-colonialismo.

Si dice che la “trimurti” del post-colonialismo sia formato dai tre grandi sociologi e studiosi delle culture: questi sarebbero E. Said, H. “Bhabha” e C. “Spivak”. Sono questi autori che per primi hanno teorizzato la crisi della cultura europea e hanno fatto vedere come la globalizzazione rimette in discussione tutti i criteri che in passato avevano fatto grande l'Europa. In essi c'è una vera “decostruzione delle nazioni”, delle categorie e dei presupposti dell'identità moderna occidentale[12].

Ma sono in crisi le categorie occidentali e anzitutto la cosiddetta razionalità occidentale che ha inventato e applicato le categorie proprie a tutto il mondo.

Per esempio idee come:

“storia” (si può fare solo la storia dell'Occidente, Chakrabarty, Hayden White);
“cultura” (è stato il primo modo antropologico per fare l'Altro, ed è il primo modo per dire “razza”, dietro cui si nasconde una prima forma di “razzismo”, M. Nye);
“religione” (non c'è un termine che abbia lo stesso significato in altri mondi, religione è un termine altamente “ideologico” nato in Occidente T. Fitzgerald, T. McCutheon);
“mistica” (per indicare essenzialmente ciò che è irrazionale, R. King, Jantzen);
ma la stessa parola “Oriente” (un orientalismo tutto ideato dagli occidentali, E. Said, Inden).

Si tratta di categorie determinate dalla ragione occidentale che è stata forte perché ha avuto potere politico (Wallerstein, il sistema mondo è stato centrato sull'Europa).

Se poi si aggiungono autori che oggi espressamente come Chakrabarty – che ha scritto: Provincializzare l'Europa[13] – intendendo relegare ai margini l'Europa, o come l'altro grande studioso Appadurai che descrive e disapprova gli schemi occidentali di auto-promozione dell'Europa, autore che ancora alcuni anni fa ha scritto: Sicuri da morire. La violenza nell'epoca della globalizzazione[14] abbiamo un piccolo quadro di come si muova il mondo e come si debbano rimeditare e ricomprendere i criteri culturali.

C'è una grande incertezza sull'identità dell'Europa e sulla sua capacità di capire il mondo delle religioni. L'Europa è “marginalizzata” secondo le stesse parole di Chakrabarty.

4.1. Il Cristianesimo è ancora occidentale?

Se il Cristianesimo era al centro del mondo, lo è stato in rapporto alla supremazia dell'Europa, quando “industrializzazione”, “modernità”, “razionalità” significavano anche dominio politico. Oggi il Cristianesimo rischia di essere marginalizzato come l'Europa o deve fare fronte alle nuove esigenze mondiali spostando il suo asse centrale.

E di fatto oggi si potrebbe dire che il centro di gravità della Chiesa cattolica romana non è più l'Europa, ma si è spostato verso il Sud del mondo.

Apogeo della deculturazione? Le vocazioni sono più numerose nel Sud del mondo. Siamo in un periodo di “africanizzazione del cristianesimo”: una specie di acculturazione al contrario[15]. La sorte dell'Europa che viene marginalizzata sembra essere anche la sorte del Cristianesimo europeo che non è più centrale.

Il cristianesimo è ancora occidentale? È un importante paragrafo del libro di O. Roy, La santa ignoranza[16].

5. La soluzione più facile.

La via mistica. S. Agostino: superare i luoghi del limite. Universalismo cristiano

Se al giorno d'oggi si esamina il concetto di misticismo o spiritualità ci si trova essenzialmente con ciò che si intende quando si parla di “universalismo cristiano”. Anzitutto la parola mistica e spiritualità ormai si separano dalla teologia e assumono una connotazione più ampia e meno determinata. Più è ampio lo spazio di significazione e proporzionatamente più i significati sono flessibili e poco determinati.

Probabilmente la parola mistica e spiritualità sono parole del XIX sec., ma oggi occupano un posto prioritario e indicano meglio la nostra religiosità. Ad esempio W. James introduce il termine per indicare ormai ciò che fa parte del mondo dell'esperienza personale e spirituale. Vivere l'esperienza significa avere una visione mistica.

Ora, la definizione agostiniana nel De Civitate Dei di “popolo” si muove proprio all'insegna di questa visione “universalistica” e “mistica” nello stesso tempo. Infatti in Agostino prevalgono gli elementi di carattere spirituale. Perché dunque non aderire a una visione aperta e libera che abbracci tutti i popoli in questa libertà spirituale e assecondando i valori interiori?

Si potrebbe dire che l'universalismo di s. Agostino è una “mistica del non luogo cristiano”, del superamento di tutti i confini socio-politici, della “non nazione” dei cristiani e dunque anche del superamento della concezione di popolo come fatto singolare. Nella rilettura che Agostino fa dei costumi dei romani, egli distingue i cristiani dal popolo romano non in base a elementi politici o giuridici, o istituzionali, ma soltanto in base a criteri eminentemente “spirituali” e a disposizioni “interiori” che sarebbero essenzialmente il desiderio e l'aspirazione alla verità e a Dio. Soltanto queste disposizioni differenziano buoni e cattivi[17]. Dunque non è l'appartenenza civile e religiosa che deve distinguere popolo da popolo, ma soltanto le disposizioni interiori: l' “autenticità” e l' “amore di Dio”.

Pertanto bisogna andare oltre anche la natura culturale, politica e sociale per basarsi unicamente su una visione spirituale. Questa sarebbe la rivoluzione radicale operata dal cristianesimo. Per questo i cristiani non sarebbero più legati a un luogo particolare, ma sono cittadini del mondo, in quanto nella civitas Dei i cristiani “peregrinano” con un proprio vincolo di comunione secondo una visione spirituale portata esclusivamente dal cristianesimo.

Di più, i cristiani vivono nel mondo come “estranei”, come “pellegrini” che attendono di raggiungere la vera patria. L’appartenenza dunque si estende oltre tutti i confini in una comunione spirituale, in un contesto che non riguarda più questa città.

Agostino arriverà a dire che, in questo contesto, la città di Dio è dunque la comunità della caritas, ponendo l'accento così sulla vita interiore rispetto a quella esteriore.

5.1. Ma la visione di Agostino corrisponde alla moderna distinzione tra religione e politica?

Sembra che questa sia una possibilità e una visione confermata dal Vat. II.

E infatti il Vat. II sembra abbia dato ragione a s. Agostino, ritenendo che politica e religione distinte e separate diano lo spazio necessario al popolo di Dio: la dizione “popolo di Dio” con cui viene chiamata la Chiesa sembra suffragare una tesi teologico-escatologica. Sembra emergere un'idea ancorata a presupposti diversi da quelli giuridico-statuali. Secondo R. Mazzola, nel Vat. II è dominante la categoria ecclesiologica del Popolo di Dio come categoria essenziale che riguarda la comunità dei fedeli che sono uniti “spiritualmente”[18].

Dunque domina la visione agostiniana del “non luogo”, del “senza tempo”, dei valori puramente spirituali del popolo cristiano, che a questo punto potrebbe essere chiamato “popolo di Dio”, ma anche popolo della “non nazione” (nos enim sumus non gens), di cui parlava Origene[19].

Ora succede che anche il post-moderno ha dato una mano a questa pluralità quasi mistica, avendo il mondo post-moderno esaltato il criterio della spiritualità soggettiva e personale.
Dunque, anche nella visione recente si puntò su una decostruzione spirituale e apofatica dei luoghi e dei popoli. Si parlò il linguaggio dell'interiorità come fece S. Agostino.

5.2. Una scansione diversa è la proposizione natura/ragione umana: universalismo “non mistico”.

Se ragione umana e natura si incontrano, allora si può parlare di una universalità a cui è sufficiente l'appoggio della natura umana.

Mentre il Cristianesimo tende sempre a “universalizzare” e a portare tutti i problemi sul piano della “verità” della religione cristiana, della “verità dell’uomo”, del valore della “legge morale immutabile e universale”, si trova che la verità dell’uomo è sempre parziale e limitata presso gli antropologi, come presso le altre religioni per cui tutto è costituito da una serie di piccole verità che corrispondono ai diversi comportamenti e alle diverse opzioni morali, ai diversi regolamenti delle famiglie che valgono soltanto all’interno di una data cultura e religione.

L'universalismo basato sulla ragione e sulla natura umana può essere convalidato?

La tesi di J. Ratzinger

Secondo il Cristianesimo, bisogna superare le società che sono frammentate dai diversi costumi dei popoli e basarsi sulla “universalità cristiana” “legge morale unica e autonoma” con cui si pensa di dettare i principi fondamentali per tutti i popoli e sotto ogni cielo poiché la ragione indica ciò che fa parte della natura umana e come agisce la natura umana a partire dall'idea di “creazione” (Per Tommaso infatti “Natura nihil est aliud quam ratio (…) indita rebus, qua ipsae res moventur ad finem”, cfr. In II Physicorum, 45).

Da notare che il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 (editio typica del 1997), l’Enciclica Veritatis Splendor del 1993 e anche il documento della Commissione Teologica Internazionale (CTI) sulla Legge Naturale del 2009 parlano di questo tema della legge morale come forma autonoma e razionale di conoscere i doveri morali. Ripetono fondamentalmente le tesi di S. Tommaso in I-II quaestio 90 e ss. dove si parla espressamente della “legge naturale”, secondo tre modalità di fondo:

  1. la legge naturale è tale perché è iscritta nella ragione umana; (l'uomo è creato da Dio)
  2. la legge naturale è partecipazione alla legge eterna;
  3. è una legge da tutti conoscibile.

Dunque la visione del Cristianesimo si potrebbe tradurre in “democrazia” e “stato liberale” dove è sufficiente affermare i valori naturali e razionali.

Avremmo così una visione del diritto divino che impatta con una visione “naturale” dei diritti e dunque sarebbe giustificata una dimensione aperta e libera dei diritti, confidando nella ragione umana che non è altro che espressione della natura quale voluta da Dio.

6. Concretamente: come tenere insieme “leggi di natura/ragione” e il “diritto divino delle religioni” ad avere le proprie leggi?

La possibilità di un revival della decostruzione apofatica medioevale filo-agostiniana non corrisponde affatto a “democrazia” e “stato liberale”.

A questo proposito bisognerebbe allora osservare che la concezione apofatica medievale non era soltanto una critica intellettuale del discorso “positivistico”, ma una pratica incorporata in un modo di vivere la comunità della Chiesa. La tradizione mistica cristiana non suggerisce il rinvio a un “mondo privato” fatto di esperienza interna, ma era una strategia organizzata coscientemente fatta di distacco, come un modo di vita, un way of life, come l'unico modo in cui si può trovare Dio.

Come controparte si può osservare – come abbiamo già osservato – che ad esempio la “umma” è legge religiosa e civile nel mondo islamico.

Ora questa legge se dovesse coesistere con il mondo mistico cristiano, creerebbe degli intoppi e degli sbarramenti insuperabili.

Ma anche la legge basata sul liberalismo cristiano “pari dignità” basato a sua volta per il mondo cristiano come fondato sulla “ragione umana e la natura” non tiene di fronte a fatti e a norme concrete di altre religioni.

Occorre infatti notare che in quest'ambito ci sono pratiche che una nazione europea non potrebbe ammettere - bona pace - in relazione ad esempio alla legge islamica: si tratta infatti di avere a che fare con problemi insuperabili quali ad esempio:
il fatto sociale della “poligamia”
il rito dell'“infibulazione”,
la condizione di “inferiorità di principio della donna”,
la condanna alla pena di morte in caso di adulterio, bestemmia contro Allah o apostasia;
un “sistema giudiziario a parte” a sfondo religioso, come fu tentato a Toronto, non si riesce a giustificare.

Ora queste norme vanno contro il diritto naturale o la democrazia occidentale.

A questo livello potrebbe avvenire la “commistione” delle due città?

Una tutta spirituale e l'altra legata alle sue norme? È vero che esse condividono la stessa dimensione spazio temporale: si potrebbe portare come paragone l'esempio stesso di Agostino che parla del rapporto tra “gli angeli buoni” e “quelli decaduti”. Due società e due discorsi diversi e contrari. La città celeste che sarebbe basata su giustizia e verità; la città terrena, basata sulla crudeltà e l’orgoglio.

La riflessione di Agostino è del resto intelligente in quanto non identifica mai nella città celeste la chiesa. Egli esalta piuttosto la “vita interiore” contro la “vita esteriore”. A questo visione “multiculturale” e multi religiosa non eravamo abituati e ci dobbiamo ora adattare[20]. Parliamo allo stesso tempo di “multi-religiosità” in quanto le religioni non si fondono, ma ciascuno resta legato al suo particolare mondo religioso. Perciò non si crea affatto una “inter-religiosità”.

7. L'appello al “diritto divino” di alcune religioni.

Poiché alcune religioni non ammettono la separazione tra politica e religione, anche il Cristianesimo se pur intendesse vivere in una dimensione mistico-escatologica, che potrebbe avere come controaltare anche una visione laica, dove vi è la separazione tra politica e religione, non lo può fare, in quanto le “altre” credenze, quelle dell'Islam intendono avere e hanno anche un impatto concreto nella vita pubblica. Una mistica cristiana, che idealmente può configurarsi anche come “una visione liberale”, non può avere nessuna presa quando dall'altra parte vi sono norme precise che devono essere rispettate in nome di Dio e della sua legge.

I due mondi confliggono in ogni caso.

Conclusione.

Cercare una progressiva “inter-religiosità” come “interculturalità” a tutti i livelli
L’esempio di Scientology

Il vero punto di forza di Scientology è che cerca di difendere dei principi religiosi, che sono “ideali sociali” e dunque non sono mai conflittuali con i principi culturali. Non ci sono valori conflittuali tra religione e cultura. Il vero problema è dato dal fatto che la religione fa semplicemente parte delle idealità della cultura.

Scientology si basa sui principi di libertà, lealtà ed eguaglianza e dunque ripete ciò che dovrebbe essere e volere ogni società. Sottolinea soltanto “idealità” che sono proprie della cultura.

Ma vorrei mettere a base un principio di fondo affermando che le religioni “a sfondo gnostico” si trovano in una situazione migliore rispetto a religioni “rivelate” che si appellano al diritto divino.

In concreto, la chiesa di Scientology avendo come scopo ultimo il “miglioramento dell’umanità” non è intaccabile, non contraddice a nessun principio, ma anzi si offre, direi, come modello di possibile integrazione di cultura e religione.

Come modello basterebbe far riferimento al “Credo” di Scientology, che è il centro di riferimento delle dottrine ed è nello stesso tempo una specie di “carta dei diritti umani”. Altrettanto si può dire delle “otto dinamiche”: queste infatti non sono altro che l’esaltazione della vita sotto ogni punto di vista.

È chiaro che vi possono essere conflittualità organizzative in rapporto alla società, ma questo è inevitabile per ogni aggregazione che voglia essere diversa dal sociale convalidato e condiviso.

L’imperativo è fare in modo che la multi-culturalità diventi sempre più inter-culturalità e l’inter-culturalità sappia comprendere una inter-religiosità.

Aldo N. Terrin
Professore di “Scienza delle religioni”
Pontificio Istituto di Liturgia Pastorale, Padova

Note

[1] Cfr. C. Geertz, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Il Mulino, Bologna 1999; cfr. anche Antony Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino, Bologna 2000; vedi anche Edmondo Greblo, A misura del mondo. Globalizzazione, democrazia, diritti, Il Mulino, Bologna 2004.

[2] Si veda globalmente: P. Valadier, Atene, Gerusalemme, Roma e Cordova. Nazioni e coestistenza dei popoli, in “Hermeneutica” (2013), Popolo e popoli, Morcelliana, Brescia, 45-72, qui 47 e ss.

[3] Cfr. Talal Asad, Religion, Nation-State, Secularism, in P. Van der Veer, H. Lehmann (eds.), Nation and Religion: Perspectives on Europe and Asia, Princeton University Press, Princeton 1999, 178 ss.

[4] Cfr. in P. Valadier, cit., 51.

[5] Cfr. C. Geertz, The Uses of Diversity, in “Michigan Quarterly Review” (1986), 105-123.

[6] Cfr. R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia, solidarietà, Laterza, Bari-Roma 1989.

[7] Si veda C. Geertz, The Uses of Diversity, cit., n.18, p.105 (traduzione libera).

[8] Cfr. C. Geertz, The Uses of Diversity, cit., n.18, p. 112.

[9] Cfr. J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotta per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998, 50 e ss.

[10] Cfr. Talal Asad, Formation of the Secular. Christianity, Islam, Modernity, Stanford University Press, Stanford (CA) 2003.

[11] Cfr. I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell'economia moderna, Il Mulino, Bologna 1978.

[12] Si veda per questo Aldo N. Terrin, L'Oriente e noi. Orientalismo e post-moderno, Morcelliana, Brescia 2007; vedi anche M. Mellino, La critica post-coloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei post-colonial Studies, Meltemi, Roma 2005.

[13] P. Chakrabharty, Provincializzare l'Europa, Meltemi, Roma 2004.

[14] Di Appadurai cito soltanto il libro che più interessa il nostro studio: A. Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell'epoca della globalizzazione, Meltemi, Roma 2005.

[15] Si veda ad esempio Ph. Jenkins, The Next Christendom: The Coming of Global Christianity, Oxford University Press, Oxford 2002.

[16] Cfr. O. Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Feltrinelli, Milano 2009, 228 e ss.

[17] Cfr. Agostino, La città di Dio I, 8,2, 91. Traduzione, Introduzione e note a cura di L. Alici, Rusconi, Milano 1992.

[18] Cfr. R. Mazzola, Il concetto di “stato” nelle religioni abramitiche, in G. Filoramo (ed.), Le religioni e il mondo moderno. Nuove tematiche e prospettive, Einaudi, Torino 2009, 19-45, qui 31 e ss.

[19] Cfr. Origene, In psalmum 36, Hom. 1,1, Nardini, Firenze 1991.

[20] Si veda in particolare F. GARELLI, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, il Mulino, Bologna 2006.