Pubblichiamo la testimonianza di una fedele sudcoreana della Chiesa di Shincheonji, che fu prima sottoposta a un ricovero forzato in un ospedale psichiatrico a causa della sua appartenenza religiosa e successivamente all'inizio del 2020 sottoposta dalla sua famiglia a un programma di conversione coercitiva (deprogrammazione). Il tutto “per il suo bene”, come cinicamente affermato dai suoi familiari.
HRWF (17.12.2020) – LEE Su-ran vive nella Città Metropolitana di Busan, Suyeong-gu con il marito e la figlia di dieci anni. Non aveva alcuna precedente affiliazione religiosa prima di entrare a far parte della Chiesa di Shincheonji nel marzo 2019.
Aveva 38 anni quando la sua famiglia cercò di rapirla per le sue convinzioni e la ricoverò in un ospedale psichiatrico prima di costringerla a sottoporsi a un programma di conversione coercitiva.
Ecco il suo racconto:
Prima del rapimento
“Stavo cercando di evangelizzare mio marito quando lui ha scoperto che ero un membro della Chiesa di Shincheonji. L'ha detto ai miei genitori, a mia sorella e a suo marito che sono tutti Buddisti. Ben presto mi sono resa conto che stavano facendo i preparativi necessari per costringermi a sottopormi a un programma di conversione coercitiva.
Di solito la mia famiglia si riuniva il 18 gennaio per festeggiare il mio compleanno, ma quest'anno mia madre mi ha detto che lo dovevo festeggiare da sola, il che era strano. Anche mio marito mi ha detto che non poteva festeggiare con me, perché stava andando a un funerale. Tuttavia, non indossava abiti funebri, il che era ancora più strano.
Mi è capitato di guardare il telefono di mio marito e ho trovato una schermata con l'indirizzo della Chiesa Presbiteriana di Busan Sae Jang Hak, nota per la gestione di programmi di conversione coercitiva. Uno dei loro pastori, Hwang Ui-Jong, è un pastore deprogrammatore. È stato allora che ho capito che la mia famiglia stava predisponendo la mia deprogrammazione".
18 gennaio 2020
“Il 18 gennaio 2020 mio marito è uscito di casa come se si stesse recando al lavoro, ma verso le 23 è tornato inaspettatamente con i miei genitori e mia sorella minore. Sono arrivati all'improvviso e mia sorella mi ha detto: "Lo faccio perché ti amo". Mentre cercavano di trattenermi, li ho implorati dicendo loro che non era quello il modo giusto di comportarsi, ma mia sorella mi ha afferrato per i capelli e abbiamo iniziato a scontrarci fisicamente.
Man mano che la lotta diventava più emotiva e violenta, mio padre mi ha dato uno schiaffo sulla guancia e ha cercato di buttarmi a terra. Ho resistito ma, nel caos, mia madre e mia sorella sono riuscite a prendere il mio cellulare e mia figlia e ad andarsene via. Terrorizzata, li ho supplicati di riportare indietro mia figlia e di restituirmi il cellulare, ma non mi hanno ascoltato. Alla fine ho preso un coltello non affilato minacciando di farmi del male, e così mio marito ha chiamato mia madre e mia sorella per tranquillizzarmi. Probabilmente, un piano già elaborato per calmarmi.
In seguito mia madre ha chiamato la polizia che è arrivata intorno all'una di notte. Mio marito mi stava tenendo ferma e io cercavo freneticamente di liberarmi. Mio marito minacciava di divorziare da me e mi insultava. La polizia ha parlato con la mia famiglia e poi mi ha ammanettata e caricata su un’ambulanza senza neanche chiedermi cosa fosse successo. A quel punto, ho smesso di lottare perché era chiaro che la polizia non mi avrebbe ascoltato. Mio marito è salito con me in ambulanza mentre venivamo portati all'ospedale psichiatrico municipale di Busan.
Il medico e le infermiere ci hanno informato che se due membri della famiglia avessero dato il loro consenso, avrei potuto essere trattenuta in ospedale per 72 ore. Entrambi mia madre e mio marito accettarono di farlo.
Sono stata tenuta in una stanza isolata e monitorata da una TV a circuito chiuso. I dottori mi hanno chiesto come fossi arrivata lì e ho raccontato tutto. Mi hanno creduto e hanno detto che sarei stata dimessa, ma che non potevano dimettere un paziente nel fine settimana.
Ho chiamato una cara amica della chiesa utilizzando un telefono pubblico e le ho detto cosa era successo."
21 gennaio 2020
“Il medico mi ha dimesso e ha contattato la mia famiglia. Mia sorella, mia madre e mio zio mi stavano aspettando davanti all'ospedale. C'erano anche alcune persone della mia chiesa, il che ha portato a uno scontro tra loro e la mia famiglia. Mia madre ha iniziato a gridare che la causa di quella situazione era Shincheonji e che avevo bisogno di sottopormi a un programma di conversione coercitiva.
I membri della chiesa avevano segnalato il fatto alla polizia. Quando la polizia arrivò fece commenti sprezzanti dicendo che ora la nostra famiglia era rovinata. Uno degli agenti mi chiese cosa volevo fare e gli dissi che volevo andare in un centro di accoglienza per donne. Tuttavia, non appena la mia famiglia disse loro che ero un membro di Shincheonji, smisero di aiutarmi e mi restituirono alla mia famiglia.
Mia madre, mio zio e mia sorella mi hanno accompagnato in macchina alla Chiesa di Sae Jang Hak per un programma prestabilito di conversione coercitiva di cinque giorni.
Durante il programma, dopo ogni cosa che il missionario diceva, facevo domande sulla Bibbia. Mia sorella e mia madre mi picchiavano, dicendo che ero pazza e che dovevo solo ascoltare. Quando mi aggredivano, mi ribellavo.
Dopo circa tre giorni, la mia famiglia ha rinunciato e ho finito il programma prima del previsto.
Poi sono stata portata a casa di mio zio nelle vicinanze. Durante i due giorni in cui sono rimasta lì, sono stato costantemente monitorata dalla mia famiglia e ho avuto molte interazioni violente con loro. Mio marito ha continuato a chiedere il divorzio e a usare con me un linguaggio offensivo.
Tuttavia, non avevo fatto nulla di sbagliato e quindi ho reagito. Sembrava che non fosse possibile raggiungere un compromesso e così, alla fine, mi hanno permesso di andarmene. Sono rimasta a casa di un amica per tre settimane. Durante questo periodo, la mia famiglia ha indetto manifestazioni davanti alla Chiesa di Shincheonji e i suoi centri di teologia".
18 febbraio 2020
“Alla fine, sono tornata a casa per riparare i legami con la mia famiglia e ricongiungermi con mia figlia. I miei familiari mi hanno accolto in lacrime ed erano molto dispiaciuti.
L'impatto negativo a lungo termine di questo episodio traumatico su di me e sulla mia famiglia è stato incommensurabile. Un esempio è che i miei genitori erano lavoratori autonomi ma avevano sospeso la loro attività mentre si preparavano a sottopormi al programma di conversione coercitiva. Ho scoperto che a quel tempo anche il pastore Hwang della Chiesa di Busan Sae Jang Hak aveva chiesto a mio marito e mia madre una donazione di 700 dollari.
Durante la pandemia del coronavirus, io e mio marito stiamo ancora litigando, ma stiamo anche cercando di salvare il nostro matrimonio per il bene di nostra figlia".
Fonte: HRWF.eu