«Non c’è dubbio che la libertà di abbigliamento sia un tratto caratteristico, e anzi il più evidente, dell’identità personale, che si configura quale “diritto ad essere se stesso”. Uguale è il sentire europeo: “religious dimension is one of the most vital elements that go to make up the identity of believers and their conception of life”(la dimensione religiosa è uno degli elementi più vitali che vanno a comporre l'identità dei credenti e la loro concezione della vita) sicchè “constraints imposed on a person’s choice of mode of dress constitute an interference with the private life as ensured by Article 8 para. 1 of the Convention (le restrizioni imposte alla scelta del modo di vestire di una persona costituiscono un'interferenza nella vita privata garantita dall'articolo 8, paragrafo 1, della Convenzione)”.
Per le norme proibitive del velo in pubblico, tuttavia, gli Stati finiscono per essere quasi sempre assolti dalla Corte EDU. […] Il che, tra l’altro, significa ammettere versioni nazionali della democrazia, diverse l’una dall’altra.
[…] solo a prima vista il divieto è neutrale perché si rivolge a tutti, anche ai cristiani e ai non credenti, certo, ma alla discriminazione in concreto soggiaceranno non loro bensì solo le donne musulmane (o gli ebrei con la kippah o i sikh con il turbante). Si tratta di un’evidenza che non ha bisogno di dimostrazione, ma che nondimeno la Corte rimette per la prova al giudice nazionale, legittimando così una disparità di interpretazione tra Stati dell’Unione su un diritto fondamentale dei cittadini europei.
La norma potrà anche essere formalmente uguale per tutti ma in concreto porrà un divieto solo a determinati lavoratori. Si perpetua, cioè, lo schema che denunciava due secoli fa Portalis, per cui tutti sono liberi di dormire sotto i ponti della Senna ma in realtà lo fanno solo i vagabondi di Parigi. La discriminazione indiretta è nei fatti e nient’affatto bilanciata o giustificata dai distinguo formalistici della Corte, che così finisce ancora una volta per considerare le persone uti mercatores e non uti cives.
Portare lo hijab, che è un semplice foulard e non il burka o il niqab, è diritto fondamentale da non comprimere salvo che danneggi in maniera irreparabile l’immagine, l’economia o la politica dell’impresa: Dietro a ogni hijab c’è una donna con il suo vissuto – di genere, di religione, di cultura, insomma di identità –, che il giudice di un’Unione dei diritti non dovrebbe consentire alle imprese di mortificare.
Per frenare, se non invertire, questo trend distopico la tutela della libertà di credo continua ad essere uno dei principali indicatori del livello delle garanzie in Europa».
Così si era espresso il Professor Nicola Colaianni, ex-Magistrato della Suprema Corte di Cassazione, nel suo intervento al convegno internazionale Diritto e libertà di credo in Europa, un cammino difficile.
Tuttavia, ora la Corte Suprema dell'Unione Europea ha stabilito che gli Stati membri possono vietare ai propri dipendenti di indossare simboli di fede religiosa. Di seguito un articolo che annuncia la decisione della Corte Suprema dell'Unione Europea.
Gli Stati dell'UE possono vietare i simboli religiosi nei luoghi di lavoro pubblici
La Corte Suprema dell'Unione Europea ha stabilito che gli Stati membri possono vietare ai propri dipendenti di indossare simboli di fede religiosa.
Di Lipika Pelham — (29.11.2023) La sentenza della Corte di giustizia (CGUE) è stata emessa dopo che una donna belga aveva affermato che il comune locale in cui lavorava aveva violato la sua libertà religiosa dicendole che non poteva indossare l’hijab.
Il tribunale ha aggiunto che tali misure devono essere limitate a ciò che è strettamente necessario.
La questione del velo islamico ha diviso l'Europa per anni.
Nel 2021 la corte ha stabilito che le donne che operano a contatto con il pubblico potrebbero essere licenziate qualora si rifiutassero di togliersi l'hijab.
L'ultimo caso è approdato in tribunale dopo che a una dipendente musulmana del comune belga orientale di Ans è stato detto che non poteva indossare il velo al lavoro.
La donna, che lavora come capo di un ufficio e non ha un ruolo pubblico, ha avviato una causa legale.
Il Comune ha quindi modificato le condizioni di impiego, affermando che i dipendenti sono tenuti a osservare una rigorosa neutralità, il che significa che è vietata qualsiasi forma di proselitismo e che non è consentito a nessun dipendente indossare evidenti simboli di affiliazione ideologica o religiosa.
Nell'esaminare il caso, il Tribunale del Lavoro di Liegi ha dichiarato di non essere sicuro che la condizione di stretta neutralità imposta dal Comune abbia dato luogo a una discriminazione contraria al diritto comunitario.
La Corte di Giustizia Europea ha risposto che le autorità degli Stati membri godono di un margine di discrezionalità nel designare il grado di neutralità che intendono adottare.
Ha poi precisato che una differente amministrazione pubblica sarebbe giustificata se decidesse di autorizzare l'uso di segni visibili di credenze politiche, filosofiche o religiose.
La Francia ha imposto un severo divieto ai simboli religiosi nelle scuole pubbliche e negli edifici governativi, sostenendo che violano il diritto alla laicità. Il velo e altri "evidenti "simboli religiosi sono stati vietati nelle scuole pubbliche nel 2004.
In agosto, il ministro francese dell'Istruzione Gabriel Attal ha dichiarato che agli alunni delle scuole statali sarebbe stato vietato di indossare l’abaya, la veste ampia e lunga indossata da alcune donne musulmane.
Questo indumento, indossato sempre più spesso nelle scuole, ha provocato una divisione a livello politico: i partiti di destra hanno insistito per un divieto, mentre quelli di sinistra hanno espresso preoccupazione per i diritti delle donne e delle ragazze musulmane.
Fonte: bbc.com