RIFLESSIONI SUL PATTO PER UN ISLAM ITALIANO, SULLA LEGGE DENOMINATA DEI “CULTI AMMESSI” DEL 1929 ED ALTRO ANCORA…
L’editoriale del dott. Giuseppe Macrina, membro del Comitato scientifico di FOB, sul recente “Patto per un Islam Italiano”, sancito a Roma fra il Ministro degli Interni Marco Minniti e alcuni rappresentanti di associazioni e comunità islamiche (1 febbraio 2017), mi ha sollecitato molte domande e spinto a qualche riflessione…
Vorrei iniziare ribadendo che il concetto di “laicità” conosce ambiti di applicazione diversa; nell’accezione politica fa riferimento alla completa distinzione tra religione e Stato e alle ingerenze reciproche. In altre parole, la laicità presuppone uno Stato aconfessionale. La nostra Costituzione, oggi, riconosce la libertà sia di chi crede che di chi non crede. Ogni persona ha la possibilità di poter praticare la propria fede religiosa, ma ha anche la libertà di non credere in alcuna religione e di poter cambiare liberamente idea o fede. Illuminante, a questo proposito, è l’articolo 8 della Costituzione, per il quale: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge…”. Un enorme passo avanti rispetto allo Statuto Albertino, che invece affermava: “La religione cattolica è la religione dello Stato”. La questione del riconoscimento del culto, con quella della libertà di pensiero e di coscienza (art. 19 e anche art.21) sono di importanza capitale e testimoniano quanto i padri della Costituente abbiano lavorato con grande spirito di responsabilità.
L’articolo 8, comma 3, stabilisce che i rapporti tra lo Stato e le religioni “… sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Vorrei sottolineare il fatto che lo strumento costituzionale preso in esame è la “legge” e non ”l’intesa” che da sola non è sufficiente a regolare i rapporti istituzionali tra Stato e confessioni religiose. Come ben sottolinea Pierluigi Consorti: “L’intesa è vincolante, fra le parti che hanno stipulato l’atto, ad adempiere a quanto stabilito, ma i suoi effetti giuridici e quindi pratici si dispiegheranno soltanto dopo la promulgazione di una apposita legge” (in: Diritto e Religione, Laterza, Roma-Bari, 2010, pag. 166). Nonostante i nobili princìpi della Carta costituzionale lo Stato italiano ha iniziato a dare attuazione all’articolo 8 con un ritardo di oltre trent’anni, quando pose mano alla riforma del Concordato del 1929. Il discorso sulle Intese si è mosso, infatti, da quello della revisione dei Patti Lateranensi e fu solo dopo l’accordo di Villa Madama (1984) che si decise di dar seguito alle intese con alcune delle altre confessioni religiose presenti in Italia. Finalmente legislatori e politici si accorsero che il panorama religioso nel nostro Paese stava cambiando. Fin dagli anni ’70 del secolo scorso si erano infatti moltiplicate nuove forme di religiosità con il conseguente aumento di confessioni religiose (Chiesa dell’Unificazione, Hare Krishna, Chiesa di Scientology, movimenti Buddhisti di varie origini e tradizioni, ecc.) che egittimamente coltivavano la speranza di un qualche tipo di riconoscimento. Con gli immigrati ed i giovani che dai Paesi arabi e dall’Iran venivano a studiare in Italia, arrivò in modo massiccio anche l’Islam, fino ad allora religione quasi di nicchia, coltivata da qualche intellettuale o filosofo. Si giunse così, dopo la revisione del Concordato del 1984, alla stagione delle intese. La prima fu con la Tavola Valdese (1984; mentre la Chiesa Avventista ha dovuto attendere il 1988, vedi: www.interno.gov.it/it/temi/cittadinanza-e-altri-diritti-civili/religioni-e-stato). La grande novità fece ben sperare ma il meccanismo predisposto si inceppò subito dopo la trasformazione in legge di sole sei intese. Questo provocò non solo una grande delusione per il mancato rispetto dell’articolo 8 della Costituzione ma introdusse nuovi elementi di disparità tra le altre fedi che speravano di emanciparsi dalla legislazione del 1929 (legge n. 1159) quella dei cosiddetti “culti ammessi” ancora oggi in vigore. A mio avviso, problema alla base di tutti i problemi è che nessuno si è mai preoccupato di abrogare la datata legislatura del 1929, con una legge più generale sul fatto religioso, che chiarisse quali fossero i diritti eguali per tutti, a prescindere dalle specificità dei vari culti (da negoziare, poi, in sede di intesa).
La questione delle “intese” ha sollevato e continua a sollevare infinite controversie: quale è la natura giuridica delle intese? Perché si continua a ritenere necessario il passaggio attraverso una trattativa governativa? In uno stato completamente laico e democratico a regolare i rapporti non sarebbero sufficienti dei semplici accordi? Per le scuole, il matrimonio, i beni immobili, la cultura….? Le intese (che poi altro non sono che un sistema di garanzie) non sono, in ultima analisi, la dimostrazione che lo Stato ha difficoltà a tutelare il cittadino nell’esercizio della sua libertà religiosa? Fra tante domande, l’unica cosa certa sembra essere la visione verticale dei rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose, a mio avviso, determinato dal precedente concordatario che in pratica ha funzionato e continua (forse inconsciamente) a funzionare come termine di riferimento generale.
Dopo un lungo periodo di silenzio, nel 2000, il Governo, finalmente, sottoscrisse le intese con i Testimoni di Geova e l’Unione Buddhista Italiana che, però, il Parlamento non discusse fino al 2007, quando con l’aggiunta di altre intese si pensò di rinnovarne la stipula ormai nell’oblio. Perché quella dimenticanza che rese, di fatto, lo Stato inadempiente? Si è dato la colpa alle varie crisi politiche e alla conseguenti fine delle legislature. Questo fu senz’altro uno dei motivi. Ma fu solo per questo? Qualcuno, e forse non a torto, sostiene che il ritardo fu motivato dalla preoccupazione di creare un precedente ad altre scomode intese (in particolare a quella con l’Islam; cfr. Pierluigi Consorti, op.cit., pag. 168, nota n. 21).
E questo ci introduce all’argomento centrale del nostro editoriale: la storia dei vari tentativi di Intesa da parte dell’Islam ed Il patto stipulato il 1 febbraio del 2017 fra il Ministro Minniti e alcuni rappresentanti di associazioni e comunità islamiche.
La via dell’intesa con l’Islam, a mio avviso, è ancora piuttosto lontana, anche se è innegabile che la stipula del “Patto” sia un gesto di buona volontà bilaterale. Ho parlato di intesa lontana perché la presenza islamica in Italia a lungo non è riuscita a trovare un canale istituzionale di riferimento. E questo, in parte accade anche oggi. Il perché è dipeso da vari motivi: pregiudizi, fobie, allarmi sociali e non ultimo anche l’incapacità dell’islam a dare vita ad un organo unitario che ne rappresentasse le varie componenti e che si proponesse come interlocutore qualificato. Così, fin da subito, fallirono alcune bozze di intesa (1992, presentata dall’UCOII; 1993, presentata dal Centro Culturale Islamico d’Italia; 1994, presentata dall’AMI; e quella del COREIS proposta nel 1996). Come non ebbe seguito il tentativo di costruire una federazione unitaria (1998) con la mediazione del Segretario generale della Lega Islamica, che si trovava a Roma per partecipare ad un Convegno sui Diritti umani, presso il Centro Culturale Islamico. All’evento era presente anche Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio.
Nel settembre del 2000 fu costituito un Consiglio Islamico d’Italia; nel suo comitato direttivo il 50% dei membri appartenevano all’UCOII, mentre il restante 50% alla Lega del Mondo Islamico (con Mario Scialoja come Presidente) e al Centro Culturale Islamico di Roma. Il COREIS, rimase tagliato fuori. La confusione era totale e la via dell’intesa sembrava preclusa. L’assenza di una rappresentanza unitaria degli islamici in Italia, indusse il Governo ad adottare un nuovo sistema di raccordo; la via dell’intesa fu sostituita dalla costituzione di una Consulta per l’Islam italiano (D.M. del 10 settembre 2005, decreto n.19630, dell’allora Ministro dell’Interno Pisanu), che mirava a formare un organismo rappresentativo islamico atto a dialogare con il Governo, per arrivare, in tempi successivi, a possibili accordi. E perché no, anche all’intesa. La Consulta, da alcuni giuristi, fu subito giudicata di dubbia legittimità costituzionale per almeno due motivi: il primo era perché, cercando di creare un coordinamento intraislamico, costituiva un esempio di ingerenza statale nei confronti di una comunità religiosa; l’altro, di non minor importanza, era perché l’iniziativa sembrava in aperto contrasto con il percorso indicato dall’articolo 8, comma 3 della nostra Costituzione. Lo Stato non si deve, infatti, intromettere nel decidere ciò che è culto e ciò che non lo è; deve rispettare l’indipendenza delle confessioni religiose che, spesso, ricorrono alle intese per risolvere questioni contingenti, di natura amministrativa o di carattere economico. Non è un caso che la prassi per le intese prevede come passo preliminare il “riconoscimento della personalità giuridica”, senza entrare in merito sulle questioni di fede e di culto. Non c’era alcun bisogno di una Consulta (anche se fra i suoi membri figuravano esperti e figure autorevoli dell’Islam italiano) per arrivare all’intesa, perché l’assenza di una rappresentanza unitaria dell’Islam non avrebbe dovuto essere considerata un ostacolo insuperabile. Sarebbe bastato seguire il modello plurale utilizzato per le confessioni cristiane non cattoliche con le quali sono state stipulate ben sette diverse intese. Intese plurali utilizzate anche con i buddhisti: con l’Unione Buddhista Italiana (2007) e con la Soka Gakkai (27 giugno 2015). La scelta del ricorso alla Consulta rivela come la presenza islamica sul territorio nazionale fosse considerata (come d’altra parte sembra lo sia ancora) un problema di sicurezza e di ordine pubblico e, non a caso, il decreto ministeriale che la costituì reca la firma del Ministro dell’Interno. Scelta piuttosto discutibile, perché “anche se le richieste di intese vengono preventivamente sottoposte al parere del Ministro dell’Interno, Direzione Generale Affari dei Culti”, i rapporti con le confessioni religiose sono sempre spettati di diritto alla presidenza del Consiglio dei Ministri. La Consulta sembrò nascere non per difendere la libertà religiosa degli islamici ma piuttosto sull’onda, anche emotiva e alimentata dai media, della necessità di tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica. Erano anni difficili, di confronti politici accesi. Anch’io, tra il 2004 ed il 2005, scrissi alcuni articoli dove affermavo la necessità di regolamentare e controllare le moschee italiane per cercare di arginare il fenomeno del terrorismo di matrice islamica. Devo dire che, dopo anni di studio, dopo che ho ben approfondito l’argomento, ho cambiato opinione. D’altra parte, “Il cambiare opinione e il seguire chi ti corregge è cosa da uomo libero” (Marco Aurelio, Ricordi, VIII, 16, 1578).
Ma torniamo alla nostra “Consulta” che, prendendo spunto da analoghe esperienze sviluppate in altri Paesi europei, cercò di predisporre uno strumento (governativo) che riteneva fosse in grado di controllare e di indirizzare le dinamiche religiose dell’Islam nella direzione auspicata dallo Stato che era quella del favorire il consolidamento del cosiddetto “Islam moderato” nei confronti di gruppi e associazioni ritenuti invece fondamentalisti e quindi pericolosi. I lavori della Consulta si arenarono anche per la forte conflittualità fra le diverse sigle che partecipavano al tavolo dei lavori.
Un nuovo impulso venne dato dal Ministro dell’Interno, Giuliano Amato, che, nel 2006, creò un “Comitato Scientifico”, composto da studiosi di storia e cultura islamica e presieduto da un illustre giurista, Carlo Cardia, docente di Diritto Ecclesiastico e Canonico, esperto di questioni di “intese” religiose per aver partecipato ai lavori per la revisione del Concordato tra Italia e Santa Sede (1984). Il Comitato mirava ad elaborare una “Carta dei Valori della Cittadinanza e dell’Integrazione” rivolta a tutte le comunità islamiche presenti in Italia (cfr. Carlo Cardia, Carte dei Valori e multiculturalità alla prova della Costituzione, sta in: Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2008. L’adozione della “Carta” da parte del Ministero dell’Interno (Decreto del 23 aprile 2007) sollevò proteste e numerose critiche (N. Colaianni, “Una Carta post-costituzionale”, in: “Stato, Chiese e Pluralismo confessionale”, 2007.
Lo stesso Comitato scientifico elaborò una “Relazione sull’Islam in Italia”, poi pubblicata dal Ministero dell’Interno nel 2008, che contiene un’ampia e articolata panoramica della presenza islamica nel nostro Paese.
Nel 2010, l’allora Ministro dell’Interno Maroni costituì un “Comitato per l’Islam italiano”. I membri del nuovo organismo furono scelti tra esperti di diritto e cultura islamici sia musulmani che non, ma furono esclusi gli appartenenti ad organizzazioni ritenute “intransigenti “ e vicine al fondamentalismo (fra queste l’UCOII). Anche in questo caso, da parte del Governo, non sembrò esserci alcuna intenzione di gettare le basi per la costituzione di una futura rappresentanza istituzionale dell’Islam. Il “Comitato” nacque e lavorò principalmente sui temi della sicurezza e della possibile integrazione. Fra gli argomenti trattati spiccano quelli relativi alla formazione degli Imam, alle moschee, al proliferare di sempre nuovi centri di culto (da porre sotto controllo e sorveglianza) e all’utilizzo del velo integrale.
Venendo a giorni a noi più vicini, il 19 marzo del 2012, il nuovo Ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, presenziò a Roma ai lavori della “Conferenza permanente su Religioni, Cultura e integrazione” istituita dal Ministro per la Cooperazione Internazionale e Integrazione Andrea Riccardi. I lavori, oltre che a esperti e studiosi italiani, furono aperti a tutti i rappresentanti delle comunità religiose presenti in Italia. Due giorni dopo (21 marzo) nacque una nuova organizzazione: la “Conferenza Islamica Italiana” (CII) che riuniva ben 250 centri di culto e moschee italiane, di tradizione Malikita vicine e sostenute dal Governo del Marocco, che nelle loro dichiarazioni avevano scelto la “via dell’Islam moderato” e che condividevano una “Carta di Valori”, abbastanza simile a quella del 2007. Per illustrare il nuovo organismo fu organizzato un congresso che fu seguito con attenzione anche da molti esponenti di altre tradizioni religiose, tra questi il Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renato Gattegna. Fu letto anche un messaggio del Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Cardinale Jean-Louis Tauran.
Da quell’episodio al 2016 non ci furono grandi novità. Nel gennaio del 2016, fu insediato al Viminale (il Ministro dell’Interno era Angelino Alfano) un nuovo organismo: il Consiglio per le Relazioni con l’Islam, coordinato dal valdese, Prof. Paolo Naso, col compito – sono parole tratte dal discorso del Ministro del 19 gennaio 2016 - di fornire pareri e formulare proposte in ordine alle questioni riguardanti l’integrazione della popolazione di cultura e religione islamica in Italia. “La fase del dialogo - sempre secondo il Ministro Alfano - non potrà prescindere dal coinvolgimento dei Prefetti sul territorio, soprattutto di quelli che operano nelle province più interessate al fenomeno dell’immigrazione, avvalendosi delle forme già sperimentate di ascolto, promozione, cooperazione e coordinamento e di organismi quali i Consigli territoriali per l’Immigrazione e le Conferenze permanenti ….”.
I lavori del nuovo Consiglio hanno portato alla recente stipula del “Patto Nazionale per un Islam Italiano, espressione di una Comunità aperta, integrata e aderente ai valori e princìpi dell’ordinamento statale” del 1° febbraio del 2017.
Il “Patto”, richiamando i valori fondanti della nostra Costituzione in termini di libertà di culto, in pratica, si prefigge di creare un Islam italiano “legittimato” dallo Stato. La legittimazione è vincolata alla sottoscrizione di alcuni precisi “impegni”, che in realtà sono dei veri e propri vincoli: promuovere (con alcune Università statali) la formazione degli Imam e guide religiose (punto 4), rendere noti i loro nomi e recapiti (in pratica si ipotizza la creazione di un albo degli Imam, punto 8), tradurre e pronunciare in italiano i sermoni della preghiera del venerdì in moschea (punto 9), garantire la sicurezza e le norme vigenti in materia di edilizia nei luoghi di preghiera e di culto (punto 7), organizzare “Tavoli interreligiosi” all’interno dei Consigli territoriali per l’immigrazione delle Prefetture (punto 7 degli “intenti”), promuovere una conferenza con l’ANCI dedicata ai luoghi di culto islamici “nel rispetto delle normative in materia urbanistica e di sicurezza” (punto 10 degli “intenti”) e assicurare la massima trasparenza nella gestione e documentazione dei finanziamenti (punto 10).
In un breve paragrafo (punto 6 che rimanda al paragrafo 3 degli “intenti”) si parla anche dell’Intesa per il riconoscimento: il Governo si impegna a “favorire le condizioni prodromiche all’avvio di negoziati volti al raggiungimento di Intese ai sensi dell’articolo 8 della Costituzione”.
La dichiarazione del Ministero che si dice disponibile a ricercare una qualche futura Intesa con l’Islam è senz’altro apprezzabile, a parte l’uso del termine “prodromico” quanto mai singolare e forse non troppo opportuno visto che, generalmente, viene utilizzato in medicina per preannunciare l’arrivo di qualche malattia.
La novità del “Patto” del 2017, è la varietà ed il numero di associazioni e comunità islamiche riunite intorno al tavolo delle trattative. Sono ben 11 e tra queste “l’Associazione Madri e Bimbi Somali” coordinata da una aspirante Imam donna: Maryan Ismail. Alcune di queste associazioni e comunità in altri momenti non avrebbero mai sottoscritto un documento comune. Forse qualcosa si sta muovendo sul fronte dell’Islam italiano. Per il resto il “Patto” è in linea con quanto il Ministero dell’Interno ha elaborato fin dalla costituzione della “Consulta” del 2007: si parla soprattutto di doveri e di obblighi per contrastare il “radicalismo religioso” e di collaborazione per mantenere lo sicurezza, si parla di educazione degli Imam (per favorire la crescita dell’Islam definito “moderato”) di sermoni in italiano e di tracciamento dei finanziamenti; non si parla di libertà di religione, di diritti e di superamento o abrogazione della legge sui “culti ammessi”, vecchia di 87 anni e retaggio di un’Italia che non esiste più.
Silvio Calzolari