A proposito della "legge regionale anti moschee"

Sezione:
Moschea

Rileggendo l’articolo della dott.ssa Nelly Ippolito

di Silvio Calzolari

“Poiché dunque è toccato a noi questo raro privilegio, di vivere in uno Stato dove è consentita a ognuno piena libertà di giudizio e la facoltà di rendere il culto a Dio secondo la propria indole, e dove niente è stimato più caro e piacevole della libertà, ho ritenuto che non avrei fatto cosa sgradita o inutile se avessi mostrato che questa libertà non solo è compatibile con la religione e la pace dello Stato ma, anzi, che essa non può essere soppressa se non insieme alla stessa pace dello Stato e alla religione!“

(Spinoza, Prefazione al “Trattato teologico-politico”)

Al giorno d’oggi, in alcune regioni d’Italia la libertà di poter praticare il proprio culto può essere ancora un problema? Sembra di sì, perché, ogni tanto, qualcuno cerca di porvi delle limitazioni. Un’eco ci è giunta, in questi ultimi tempi, dalle cosiddette “Leggi regionali antimoschee” che FOB ha più volte stigmatizzato e pubblicamente denunciato. Il saggio che la dott.ssa Nelly Ippolito ha recentemente pubblicato sul sito di FOB è un ulteriore, prezioso, contributo alla conoscenza di questa realtà.

Ormai l’Italia è un Paese religioso plurale. Un tempo si parlava di Stato come: “un popolo, un territorio, un ordinamento, una religione”. Oggi non più. L’epoca in cui viviamo è quella di una società, come si suole dire multiculturale e religiosamente pluralistica. È una società nella quale uomini e donne di ogni religione o di nessuna religione dovrebbero vivere insieme in condizioni di giustizia, di pace, di amicizia e nel pieno rispetto dei diritti umani, fra i quali dovrebbe spiccare quello della libertà di religione e di credo. C’è pluralità religiosa e di conseguenza dovrebbe esserci anche il pluralismo dei luoghi di culto. Ed in effetti, ai più, piace pensare che sia così. Ma lo è davvero? “Pluralità religiosa” e “Diritti di religione, di credo e di culto” sono parole belle, le usiamo tutti, ma mancano i fatti e spesso mancano i diritti.

Certo, nessuno, oggi, in Italia, si meraviglia più di un tempio o un monastero buddhista, induista, taoista o sikh, per quanto esteticamente estranei alla nostra cultura o imponenti che siano. Prendiamo, per esempio, la grande sede dei Sikh, la nuova Gurudwara Sikh, a Pessina, nel Cremonese, la seconda più grande d’Europa (quella precedente di Novellara, era stata addirittura inaugurata, nel 2000, da Romano Prodi, allora Presidente della Commissione europea); se ne è valutato la collocazione, le misure, l’estetica e alla fine se ne è autorizzato la costruzione senza provocare grandi contrasti o riflessi identitari (dicotomia: “noi-loro”). Lo stesso, però, non è accaduto e non accade per i luoghi di culto delle comunità islamiche. Nessun edificio pubblico o privato, nessuna chiesa o centro religioso o di preghiera sembra produrre nelle nostre società conflitti così forti come le moschee. Ma perché? I motivi sono senz’altro molti e sarebbe difficile, in questo breve editoriale, cercare di analizzarli. Ne voglio citare solo due: i pregiudizi etnici e religiosi che una volta radicati sono molto difficili da cancellare e la strumentalizzazione politica della religione, anche da parte di gruppi “anti-sette”, ad esempio la controversa FECRIS e le sue consociate italiane (con inevitabili influenze sui media) che lucra sull’emotività delle persone, sull’islamofobia, la visibilità ed il consenso. Così, da anni, nel nostro Paese, si fa un gran parlare, spesso a sproposito, e talvolta in maniera distorta o tendenziosa, delle moschee e del loro funzionamento, degli Imam e della loro formazione. Il vero problema non sono le moschee ma il conflitto ideologico che si è creato attorno all’Islam.

I rimedi a tutto questo sono la conoscenza ed il dialogo; ma il dialogo esige il riconoscimento dell’altro e persone in grado di confrontarsi in piena libertà e nella consapevolezza di una sicura identità. Il dialogo tra appartenenze religiose diverse deve essere fondato sul rispetto dell’autenticità della fede di ciascuno. Per comprendere l’altro dobbiamo procedere per comparazione e differenza, secondo una concezione asimmetrica dell’identità. Occorre superare gli stereotipi; chi crede nel dialogo e nel valore delle diversità non può che essere contrario ad ogni egemonia di parte, ad ogni esercizio di prevaricazione, ad ogni integralismo e fondamentalismo, che si fondano su certezze assolute che tendono ad escludere l’altro o subordinarlo. E qui deve entrare in gioco lo Stato per garantire a ciascuno “il diritto di professare la propria religione o convinzione tanto in pubblico che nel privato, coll’insegnamento, le pratiche, il culto e l’adempimento dei riti”, come proclama la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” (art.18). Anche la Costituzione italiana, ben sottolinea Nelly Ippolito nel suo articolo sul sito di FOB, garantisce il diritto di libertà religiosa e a disporre di luoghi di culto: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la loro fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda, e di esercitarne, in pubblico o privato il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”, art.19). E ancora, recita l’art. 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla Legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali”.

Il diritto inalienabile alla libertà religiosa e quello di avere la possibilità di poter gestire appositi luoghi di culto, esistono anche e soprattutto per le minoranze. Nella nostra società l’Islam ha, al pari delle altri confessioni religiose, pienamente diritto a poter disporre di moschee appropriate e dignitose. Mi riferisco, naturalmente, a luoghi di culto pubblici e ufficialmente riconosciuti; perché ormai da decenni, i musulmani sono costretti ad utilizzare, spesso in maniera impropria, depositi, garage o fondi di negozio come centri di preghiera. In termini di principio, la questione delle moschee non dovrebbe nemmeno esistere. Purtroppo, invece, esiste, come testimoniano i recenti tentativi di promuovere “Leggi antimoschee” in Lombardia, in Veneto e ora anche in Liguria.

La “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” e l’articolo 19 della Costituzione italiana sottolineano il diritto a professare la propria religione: ”tanto in pubblico che nel privato”, e “sia in maniera individuale che associata”; le moschee costituiscono la modalità di uscita dell’Islam dalla sfera privata per fare ingresso, come interlocutore, nella società, nel mondo pubblico e ufficiale. Per questo motivo le varie Organizzazioni islamiche presenti nel nostro Paese chiedono, al pari degli altri gruppi religiosi, la concessione di spazi dignitosi e visibilità. Ma, il più delle volte, le risposte che ricevono tendono all’emarginazione nelle aree cittadine più periferiche, dismesse e abbandonate; inoltre può essere anche richiesto il mimetismo architettonico. In parole povere le moschee “ideali” per certi Comuni e Regioni, non dovrebbero essere troppo visibili o riconoscibili (si pensi alla cosiddetta “questione dei minareti” e al referendum che, nel 2009, è stato indetto in Svizzera per impedirne la costruzione). Sul come e sul dove venga costruita una moschea nelle aree cittadine, ben venga la discussione e anche, se necessario, il duro confronto; a patto però che ci sia la volontà di costruirla…. D’altra parte la discussione è il sale della democrazia. Ben venga, quindi, il dibattito se supportato dalla consapevolezza che le comunità musulmane hanno, come ogni altra comunità religiosa, diritto a idonei luoghi di culto pubblici e riconosciuti. Purtroppo, in Italia, esiste a tutt’oggi una disparità di trattamenti tra cittadini che professano fedi diverse. La Chiesa Cattolica ha un Concordato, alcune religioni sono tutelate da specifiche “Intese”, mentre altri gruppi e fedi (è il caso dell’Islam) non hanno ancora ottenuto il riconoscimento e, di fatto, vivono in uno status di minoranza giuridica. Il problema delle “Intese” è posto nell’articolo 8 della Costituzione italiana, dove si ribadisce la libertà delle confessioni religiose ma si vincolano i loro rapporti con lo Stato: “Tutte le confessioni religiose sono libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. La “rappresentanza” è quindi necessaria per stabile una qualsiasi forma di “intesa”. Il problema è di non facile soluzione per alcune religioni, come ad esempio l’Islam dove ancora oggi si dibatte su chi debba rappresentare quel variegato mondo presso lo Stato per far valere il loro diritto.

C’è poi una ulteriore complicazione: le altre confessioni religiose si sono create (e si creano) le proprie “rappresentanze” da sole; nel caso dell’Islam, invece, per vari motivi, sono intervenuti, più volte, gli Stati. E questo non solo in Italia. In Francia, per esempio, dove, da secoli, vige (o dovrebbe vigere) la più assoluta separazione tra Stato e religione, il governo, nel 2008, ha deciso di affidare la formazione degli Imam ad un ente scelto preventivamente: l’Institut Catholique che tiene corsi di “religione islamica e laicità”! Un vero e proprio paradosso!

Come c’è stata interferenza quando si è cercato di promulgare “leggi ad hoc”, cioè “normative speciali” per l’Islam o di introdurre il cosiddetto “albo degli Imam”. Detta così, la questione dell’albo può sembrare normale, d’altra parte esistono già alcuni albi: quello dei giornalisti, dei medici, ecc.; ma cosa vuol dire: “albo degli Imam”? Non esiste infatti niente di simile per sacerdoti, preti, rabbini, pastori o bonzi.

In pratica, tutte le questioni relative all’Islam (e quindi anche quella delle moschee) sembrano acquisire, in Europa – ed in particolare in Italia –, per motivi non attinenti alla sfera religiosa, una valenza di eccezionalità. E questo è, senza dubbio, un problema. Perché qualcuno potrebbe essere indotto a dimenticare che l’Islam è, prima di tutto, una religione. Una religione come l’Ebraismo, il Cristianesimo, l’Induismo o il Buddhismo. Con gli stessi doveri verso lo Stato ma anche con gli stessi diritti.

In quest’ottica di eccezionalità, fortemente emotiva e discriminatoria, di chi considera l’Islam non gestibile con la normativa vigente, si possono inserire i recenti tentativi di promulgare alcune leggi regionali che di fatto, cercando di impedire la costruzione delle moschee hanno finito per criminalizzare un’intera religione.

La cosiddetta “Legge antimoschee” della Regione lombarda (la n.2 del 2015), poi giudicata anticostituzionale (ma riproposta con alcune modifiche in altre regioni, come nel Veneto e, recentemente in Liguria) anche se pensata contro l’Islam, di fatto, se generalizzata, penalizzava non solo la religione del Corano ma anche la costruzione dei luoghi di culto delle religioni minoritarie e colpiva la libertà religiosa di molti altri soggetti. La “Legge antimoschee” lombarda prevedeva, infatti, che le confessioni religiose prive di “intesa” con lo Stato avessero l’obbligo di un parere preventivo di una Consulta regionale costituita ad hoc (la Consulta per la costruzione degli edifici di culto). In altre parole, la “Legge” celava dietro misure a carattere urbanistico e di governo del territorio (ad esempio: la congruità architettonica, l’integrazione con il paesaggio, la distanza da altri luoghi di culto, la possibilità di un parcheggio, la sicurezza, ecc.) autentiche scelte discriminatorie. La costruzione degli edifici di culto poteva essere, inoltre, subordinata all’approvazione di delibere comunali, ai pareri di organizzazioni e comitati di cittadini, alle valutazioni dei vari organi di vigilanza e sicurezza o, addirittura, al risultato di un referendum tra i residenti.

Tutte le comunità religiose hanno espresso critiche alla “Legge” (Pentecostali, Avventisti, Valdesi, Testimoni di Geova, Scientology e anche la Chiesa Ambrosiana, in linea con la sua tradizione: basti pensare alle dichiarazioni che, nel 2010, rilasciò l’allora Cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi (sulla necessità di trovare, a breve termine una soluzione ai problemi dei luoghi di culto dell’Islam) e all’ancora attualissima lettera del Cardinal Martini (“Noi e l’Islam”), che poneva come punti cardine al dialogo l’apertura alle differenze religiose ed il diritto per ognuno di professare liberamente il proprio credo.

Bene ha fatto, come sottolinea Nelly Ippolito, la Corte Costituzionale (sentenza n. 63 del 24 marzo 2016) a giudicare incostituzionale quella legge regionale che andava contro il diritto di libertà religiosa: la maggioranza, qualunque essa sia, non può decidere sul diritto delle minoranze. Con questa sentenza si è ribadito, inoltre, che è lo Stato ad avere la podestà legislativa esclusiva (e non le Regioni che ne invocavano la competenza sulla base di normative urbanistiche o di un generico “governo del territorio”) relativa alla disciplina dei rapporti con le varie confessioni religiose. È la Costituzione a garantire la libertà religiosa ed il diritto a disporre di luoghi di culto. Per questo è fondamentale la “laicità”: solo uno Stato laico può garantire ad ognuno gli stessi diritti degli altri. Nella stessa sentenza la Corte Costituzionale ha, inoltre, sottolineato che anche la legislazione sulla sicurezza è esclusiva dello Stato. Non sono necessarie regolamentazioni (per di più regionali!) specifiche per l’Islam. Le leggi ci sono e devono valere per tutti i cittadini. Ognuno deve essere libero di professare il suo credo nel modo che la sua confessione gli indica. Naturalmente la libertà dell’esercizio del culto in luoghi pubblici e privati deve seguire gli standard di legalità richiesti a tutti. Su quest’ultimo punto, sono molti, ormai, gli autorevoli esponenti islamici in Italia ed in Europa a sostenere che l’attività delle moschee deve essere sottoposta alle leggi dello Stato che le ospita.

Le moschee, al di là di ogni discriminazione e pregiudizio, sono luoghi di incontro e di preghiera; nei nostri Paesi sono uno dei pochi luoghi dove i fedeli dell’Islam possono mantenere la propria cultura e le proprie radici ma al tempo stesso possono essere dei veri e propri ponti per una integrazione costruttiva.