Lavaggio del cervello all'italiana: il caso Braibanti

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Aldo Braibanti

Quando i giudici nel 1968 trovarono un filosofo gay comunista colpevole di aver fatto il "lavaggio del cervello" ai suoi allievi per indurli all'omosessualità, scoppiò una polemica nazionale.

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di Massimo Introvigne — Nei precedenti articoli della serie abbiamo visto come, alla fine di una secolare evoluzione giuridica, nel 1930 il ministro della giustizia di Mussolini Alfredo Rocco, prevalendo contro il parere della commissione che stava redigendo il nuovo codice penale italiano, vi inserì un articolo 603 che incriminava quello che sarebbe stato poi chiamato "lavaggio del cervello". La commissione era preoccupata che la norma potesse essere usata arbitrariamente contro coloro che avessero persuaso altri di idee che alcuni giudici o pubblici ministeri avrebbero potuto considerare inaccettabili.

Era, tuttavia, molto rumore per nulla. Se Mussolini credeva che la nuova disposizione potesse essere usata contro gli oppositori del regime, sarebbe rimasto deluso. In epoca fascista, nessuno fu condannato per "plagio". Infatti, la norma del "plagio" non portò mai a condanne anche dopo la fine del regime fascista, finché le cose non cambiarono negli anni '60.

Fino agli anni '60, non ci sono stati effetti in seguito all'introduzione nel codice penale italiano dell'articolo 603. Nei primi quarant'anni della sua esistenza, ci furono pochissimi processi per "plagio", tutti riguardanti la seduzione sessuale di donne da parte di uomini, e tutti finiti con assoluzioni. Nel 1961, la Corte di Cassazione post-fascista trattò il suo primo caso di "plagio", in cui un maestro elementare, dopo aver sedotto una bambina, l'aveva tenuta confinata in una casa molto piccola, sotto chiave, senza permetterle di uscire. La Corte ribaltò la sentenza nel merito, stabilendo che i giudici non avevano sufficientemente indagato se, invece di "plagio", non si fosse trattato di un caso di "passione spontanea" da parte della ragazza, che la portava a una "totale e volontaria devozione sessuale".

La sentenza sarebbe pesantemente criticata oggi, ed era un frutto di tempi diversi. Includeva un commento che, almeno in teoria (ma non nel caso della ragazza e dell'insegnante), l'articolo 603 poteva applicarsi alla "creazione di un rapporto psicologico di totale sottomissione del soggetto passivo al soggetto attivo, in modo che il primo venga dominato dal potere del secondo, con soppressione totale o quasi totale della libera autodeterminazione della vittima". Questo è ciò che Rocco aveva voluto inserire nel codice penale nel 1930. Ma era coerente con la Costituzione democratica?

La questione non fu sollevata fino al 1968, quando la Corte d'Assise di Roma, in un caso che divenne famoso, condannò Aldo Braibanti a nove anni di carcere (ridotti a sei in appello, di cui ne scontò due, gli altri quattro essendo stati condonati per la sua partecipazione alla resistenza antifascista). Autodidatta ma noto filosofo gay marxista, Braibanti aveva accolto in casa sua due giovani che lavoravano come suoi segretari. Secondo l'accusa, li aveva confinati in piccole stanze, sfinendoli non dandogli da mangiare e privandoli del sonno e del contatto con il mondo esterno, fino a portarli ad uno stato di asservimento psicologico con lo scopo di farne i suoi amanti.

Aldo Braibanti

Aldo Braibanti (1922-2014) è stata l'unica persona riconosciuta colpevole di "plagio" nella storia giuridica italiana.


Il 14 luglio 1968, Braibanti fu riconosciuto colpevole di "plagio" da una giuria. La Corte d'Appello di Roma (sempre in un processo con giuria) confermò la sentenza, pur riducendo la pena, il 28 novembre 1969, e la Cassazione fece lo stesso il 21 ottobre 1971. Con una dichiarazione che poteva essere presa in prestito dai dibattiti sul lavaggio del cervello che si stavano svolgendo negli Stati Uniti, la Suprema Corte (andando anche oltre le sentenze dei tribunali inferiori) descrisse il "plagio" di Braibanti come una "situazione in cui la psiche della persona costretta veniva svuotata". Ciò era possibile anche senza ricorrere alla violenza fisica o alla somministrazione di droghe patogene, attraverso l'effetto combinato di vari mezzi, ognuno dei quali da solo poteva non essere efficace, mentre lo diventava se combinato insieme".

Il processo generò il "caso Braibanti", che dominò il dibattito politico italiano per diversi mesi. Il caso portò importanti intellettuali italiani di sinistra come il romanziere Alberto Moravia e il semiologo Umberto Eco, e un gran numero di importanti avvocati e psichiatri, a presentare una petizione per l'abolizione della legge sul "plagio".

Il dibattito ha prodotto un'ampia letteratura che ruota intorno a due tipi di critiche all'articolo 603. La prima era empirica. Contrariamente a quanto credevano i giudici italiani, si sosteneva che il "plagio" come " totale sottomissione" psicologica (al contrario di quella fisica) non esisteva. La maggior parte degli psichiatri italiani, sostenevano i critici, era d'accordo su questo punto. Anche se questo non fosse il caso, i dubbi sarebbero sufficienti a rendere la norma vaga e indeterminata, quindi incostituzionale.

Il secondo gruppo di critiche era politico. I critici sostenevano che la regola mascherava un tentativo di discriminazione ideologica. Braibanti, sostenevano, è stato giudicato colpevole non perché avesse usato metodi strani o sinistri per indottrinare i suoi alunni, ma per il contenuto dell'indottrinamento, che includeva un'apologia dell'omosessualità. Secondo i critici, i giudici omofobi credevano che "convertirsi" all'omosessualità fosse così anormale che nessuno poteva farlo per libera scelta. I giudici, sostenevano i critici, avevano incriminato uno stile di vita, l'omosessualità, con il pretesto di giudicare i metodi di indottrinamento.

Le critiche non ebbero successo e Braibanti finì in carcere. Come vedremo nel prossimo articolo, solo dieci anni dopo la prima sentenza Braibanti un altro caso di "plagio", riguardante un prete Cattolico, portò all'intervento decisivo della Corte Costituzionale.

Fonte: Bitter Winter