Un triste anniversario, un monito perenne

Sezione:
Alessandra Pesce

Ricorrerà presto il 35° anniversario di un evento riprovevole a tutt'oggi rimasto del tutto impunito sul piano giudiziario, ma ormai – sul piano morale – universalmente condannato da chiunque ne sia venuto a conoscenza, così come i suoi meschini istigatori, esecutori, complici e insabbiatori.

Il 24 Aprile del 1988, con la sconcertante complicità dei suoi stessi genitori ingannati da persone senza scrupoli, la giovane bresciana Alessandra Pesce, ventiquattrenne diplomata ed economicamente indipendente, viene sequestrata e trasportata in una casa nella campagna toscana, nella quale sarà segregata e oggetto di maltrattamenti per alcuni giorni prima di riuscire a fuggire e a denunciare i suoi aguzzini prezzolati.

Una delle poche realtà sotto gli occhi di tutti in questi ultimi tre anni – che si appoggi una sigla politica o un'altra, che si parteggi per una corrente di pensiero o per un'altra, che si appartenga ad un'etnia o ad un'altra – è che vi sono in atto profonde divisioni sociali ovunque nell'intero orbe terracqueo.

Campagne propagandistiche a tratti asfissianti battono la grancassa per questa o quella fazione, mettono in cattiva luce certuni e portano sugli allori certi altri, insinuano il terrore o il sospetto verso chi non segue una certa linea, sovente diffondono notizie fasulle o artificiosamente confezionate per produrre una ben precisa reazione emotiva. In generale, ovunque al mondo, la popolazione è bersagliata da messaggi che inducono all'odio o scatenano ostilità.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare (soprattutto se si dà troppo retta all'ormai stucchevole narrazione dei mass media), storicamente le religioni nascono proprio per unificare, includere, armonizzare i popoli. Lo dimostrano meravigliosamente periodi storici fortunati in cui la politica e la propaganda di regime non hanno interferito con il naturale svolgersi degli eventi e con l'innata inclinazione della gente alla convivenza e alla solidarietà: basti pensare alla Sicilia normanna nel ventennio di Ruggero II d'Altavilla, e successivamente con Federico II Hohenstaufen, l'imperatore tedesco «fanciullo di Puglia» che ne continuò la tradizione di rispetto, addirittura arrivando a conquistare Gerusalemme senza guerra, nel 1229, grazie a un accordo pacifico con il sultano al-Kāmil (nipote del leggendario Saladino); oppure alla Spagna sotto il dominio arabo nel secolo VIII d.C., o ancora all'America del «melting pot» (il«crogiuolo di appartenenze»), oppure – infine – alla cosmopolita Baghdad dei secoli VIII-IX dominata dagli Abbasidi, nella quale coabitavano musulmani, cristiani, ebrei e zoroastriani provenienti da tutto il Vicino e Medio Oriente come pure dall'Asia centrale. In breve, laddove non sussistono pressioni intese a dividere e a inimicare, a creare fazioni e a generare scompiglio, etnie e religioni si affiancano e prosperano nel cammino della vita.

Ma la temperie sociale di oggi, come si diceva, è di ben altro genere: alquanto più simile, invero, a tutti quegli altri periodi storici – che tutti noi studiamo sui manuali di storia – durante i quali per ragioni ben precise (e volutamente provocate) etnie e religioni si sono scontrate e si scontrano in conflitti sanguinosi, devastanti e fratricidi.

Nell'attualità, il pensiero corre inevitabilmente alla Cina: da lungo tempo, ormai, è ampiamente documentata la collaborazione fra il regime di Pechino e i gruppi anti-“sette” più tristemente noti e controversi quali FECRIS e CCMM con le rispettive ramificazioni più locali, tanto quanto ne sono sotto gli occhi di tutti i risultati catastrofici fra cui vere e proprie persecuzioni e repressione violenta, a un punto tale che persino istituzioni internazionali come la USCIRF sono intervenute per denunciare tutto ciò.

Che i gruppi anti-“sette” rappresentino di fatto una minaccia globale alla pace e alla convivenza fra le etnie e i popoli, non è certo un'affermazione casuale e tanto meno si può confutarla. Basti pensare (ma è solo uno fra gli ormai innumerevoli esempi) a come certi attivisti anti-“sette” (coinvolti con FECRIS ed affiliati) arrivino addirittura a salutare con favore, pubblicamente, il governo russo nelle sue politiche bellicose, le cui devastazioni sanguinose sono purtroppo sotto gli occhi di tutti. D'altronde – insegna la storia – qualsiasi governo nazionale si lasci attirare nella spirale d'odio della guerra, provocato o provocatore che sia, non può che costringere il suo stesso popolo a piangere i propri caduti e condannare i suoi superstiti a consumarsi nel rimorso per i crimini commessi.

Infatti, da regime a regime, fra la Cina e la Russia la distanza ideologica è assai più breve di quanto la geografia non potrebbe lasciar sospettare; e ciò da ben prima che i recenti sconvolgimenti socio-politici avvicinassero i due governi totalitari. Anzi: l'operato degli anti-“sette” potrebbe quasi dirsi prodromico rispetto all'apparente comunanza di intenti fra Mosca e Pechino in fatto di politica internazionale.

Infatti, il clima di ostracismo e intolleranza nei confronti delle realtà religiose non convenzionali diffusosi negli anni all'interno della chiesa ortodossa russa è talmente aspro ed ossessivo da provocare ormai dissenso e fratture fra i suoi stessi esponenti; ciò non stupisce, se si pensa che il principale attivista della FECRIS a livello internazionale, Aleksandr Dvorkin (già vicepresidente della stessa dal 2009 al 2021), è arrivato a definire pubblicamente e senza remore i movimenti religiosi «cellule cancerose [che] consumano il corpo sano della società fino a ucciderlo». E non si tratta di un'asserzione isolata (le cui inquietanti reminiscenze storiche cui dà adito sono lapalissiane), ma piuttosto della linea politica che ha da sempre contraddistinto il suo operato: infondere odio per generare ostilità e produrre rappresaglie e vendette, per lo più basate su motivi futili quando non inesistenti.

D'altronde, quando la FECRIS e gli altri controversi gruppi anti-“sette” propongono come esperti nei propri convegni personaggi dall'accertato background criminale come Rick Ross, diventa quanto mai chiaro l'intento meramente distruttivo alla base delle loro attività. Lo schema è in effetti piuttosto semplice: un governo comunista totalitario (Cina) ha bisogno di risolvere un “problema politico”, ossia cancellare una minoranza scomoda che ha avuto l'ardire di protestare per la libertà pubblicamente (ma in modo del tutto pacifico), così assolda un mercenario (Ross) che fornisca il know-how necessario alla sua manovalanza, e – per salvare le apparenze – non manca di ammantare l'intera operazione con un'aura di presunta scientificità e ufficialità (fornita dalla FECRIS).

Inevitabile conseguenza sono i soprusi e le violenze già visti più e più volte in passato: prima fra tutte, la famigerata pratica della «deprogrammazione», di cui Rick Ross è stato un infausto promotore sin dagli anni 1980.

D’altronde basta solo spingersi con lo sguardo di un tanto oltre la superficie, senza farsi incantare dalle false asserzioni di utilità sociale o di chissà quale altra mirabolante caratteristica, per scoprire che le radici dei gruppi anti-“sette” come la FECRIS affondano nel torbido: infatti già a metà degli anni 1980 in Italia alcune persone avevano creduto di poter lucrare sul fenomeno emergente della diffusione dei movimenti religiosi e avevano formato a questo scopo la ARIS (associazione per la ricerca e informazione sulle sette). Operando «come la mafia»[1], in pochi anni la famigerata ARIS ha devastato famiglie seminando zizzania e promuovendo la pratica della «deprogrammazione».

Torniamo così al caso di Alessandra Pesce, vittima di abusi di matrice anti-“sette” della stessa natura di quelli che oggigiorno vengono perpetrati ai danni delle minoranze religiose in Cina e in Russia. Della memoria legata a questo tristissimo caso di degenerazione dei rapporti familiari, propiziata e sfruttata (a scopo di lucro) da faccendieri anti-“sette” privi di coscienza facenti capo all’ARIS, FOB si è fatta orgogliosamente portavoce sin dal momento della prima presentazione pubblica presso la Camera dei Deputati[2].

Oggi, a testimonianza di tale tragico evento e affinché rimanga come monito perenne, FOB ha interpellato Alessandra Pesce che ha rilasciato la seguente intervista.

[FOB] Alessandra, a quasi 35 anni di distanza da quella triste settimana di fine Aprile, ritiene ancora utile che la memoria di quei fatti venga rinnovata?

[A.P.] Certamente, lo ritengo utile e anzi in un certo senso doveroso, perché dalla memoria storica si può quanto meno sperare di trarre un insegnamento per il futuro. In quest’ottica, sono molto grata a FOB per l’opera costante di informazione alternativa e di promozione di una cultura del rispetto fra le differenti culture e religioni.

[FOB] Torniamo per un momento a quel 24 Aprile del 1988: come avvenne il sequestro?

[A.P.] Quella domenica, mio padre mi invitò con una scusa a visitare una casa che stava progettando di comprare. Dopo un’ora di strada mi resi conto che non stavamo andando nella giusta direzione e cominciai a protestare. Mio padre si rifiutò di lasciarmi scendere dall’auto con varie scuse, dopo un altro po’ mia madre mi offrì del tè da un thermos e io mi addormentai profondamente, come sedata.

[FOB] Ha mai potuto trovare una risposta a come abbiano potuto i suoi genitori spingersi a tanto?

[A.P.] Non è facile oggi, come non lo è mai stato in precedenza, soddisfare un simile interrogativo: in ultima analisi si convive con sé stessi e con ciò che si è fatto o non fatto, e in quest’ottica non augurerei a nessuno di dover fare i conti con la consapevolezza di aver compiuto un simile atto. Però questa, col senno di poi, rimane una visione limitata e vale la pena di allargare un po’ l’obiettivo. In quel periodo in Italia i giornali (Internet e i media online non esistevano) avevano preso di mira la mia giovane comunità religiosa con una ferocia inaudita; resoconti allarmistici, per lo più basati su dicerie o interpretazioni fuorvianti o situazioni giudiziarie ben lungi dall’essere acclarate, riempivano le colonne della carta stampata con titoloni roboanti. Ovviamente le famiglie ne venivano influenzate, avvenivano litigi, si scatenavano preoccupazioni e tensioni, ecc. Falsità, malignità, sospetto, intolleranza: quelle furono le scintille che scatenarono vicende come la mia. Inutile dire che le campagne di disinformazione, ora come allora, sono moralmente responsabili.

[FOB] Lei si risvegliò ormai a destinazione, in una casa di campagna, dove ebbe inizio il tentativo di “rieducazione”.

[A.P.] Sì, già dalla sera stessa: giorni interi, dalla mattina alla sera, costretta in una stanza chiusa a chiave e con l’unica finestra coperta da un armadio, in balia di sconosciuti che mi sottoponevano a una sorta di terzo grado vomitandomi addosso con veemenza ogni possibile cattiveria nel tentativo di convincermi di quanto fossi in errore per la fede che avevo scelto. Senza contare che, già il primo giorno, il mio disperato tentativo iniziale di fuggire fallì, fui spinta violentemente contro un letto e mi ritrovai con un piede fratturato.

[FOB] Per quanto tempo dovette sopportare questi maltrattamenti?

[A.P.] Cominciamo col dire che oltre alla pressione psicologica e alla disperazione, giorno dopo giorno dovetti fare i conti anche con il dolore al piede provocatomi da uno dei miei carcerieri (a nulla mi era valso implorarli perché mi venisse prestata assistenza medica). Comunque, nel complesso, questa prima parte della vicenda durò cinque giorni… cinque lunghi giorni nel corso dei quali, un po’ alla volta, dovetti rendermi conto che nulla di ciò che dicevo sarebbe mai stato preso in considerazione, venivo trattata alla stregua di un’incapace o – peggio – di un animale da “addestrare”. Per quei signori non contavano nulla le mie aspirazioni, la mia cultura, le mie convinzioni, le mie credenze né la mia stessa dignità umana.

[FOB] Come riuscì a liberarsene?

[A.P.] Riuscii solo con l’astuzia: dopo la primissima fase in cui cercai di ribellarmi e mi ritrovai con un osso fratturato, cominciai ad assecondare le loro invettive e il loro fanatismo antireligioso, convincendoli di essere riusciti nell’intento di portarmi sotto il loro controllo. Così, quando poi arrivò il momento di spostarci in un’altra località secondo il piano stabilito dai deprogrammatori, colsi un momento favorevole per ottenere una deviazione dal percorso e tornare a Brescia (la mia città) dove frattanto il mio datore di lavoro e il mio fidanzato avevano sporto denuncia per la mia scomparsa. Credo sia superfluo addentrarmi in ulteriori dettagli, ma in sintesi ho chiesto aiuto ai Carabinieri quando ho finalmente ottenuto di essere portata al Pronto Soccorso per la caviglia rotta durante la «deprogrammazione»: a quel punto, appena ho potuto sfuggire al controllo soldatesco dei sequestratori, me ne sono andata e non sono più tornata nella casa dei miei genitori.

[FOB] In conclusione, Alessandra: che cosa può ancora insegnare la sua vicenda, in quest’era moderna?

[A.P.] L’importanza della dignità umana e l’indispensabilità del rispetto reciproco, prima di tutto. Si può vivere in pace anche in presenza di convinzioni radicalmente diverse, e non bisognerebbe mai dare corda a chi cerca di dividere, di contrapporre, di generare fratture, a maggior ragione in ambito familiare. Quando si sente qualcuno battere la grancassa per una causa che disunisce, occorre dare fondo a tutto il proprio senso critico e valutare con estrema attenzione quelle asserzioni: difficilmente con l’odio, l’ostilità o il sospetto generalizzato si può generare una società migliore. Una maggiore comprensione, invece, questa sì: studiare, capire, approfondire ciò che ci sorprende o che ci lascia stupiti, trovarne le ragioni, esplorarne i contesti. Così si può convivere in armonia, senza necessariamente abbracciare convinzioni diverse dalle proprie.

[FOB] Sapendo di essere comunque uscita vincitrice da quella disgraziata esperienza, crede che la sua vita attuale e il suo futuro ne saranno ancora influenzati?

[A.P.] Dopo tanto tempo, posso dire che la mia vita ha preso una propria strada della quale riesco solo ad essere orgogliosa. Ben lungi dal serbare rancori verso chicchessia, in 35 anni ho costruito una mia famiglia, ho molti amici, ho avuto successo nelle mie attività. Posso camminare a testa alta nella società, fiera di aver tenuto fede alle mie convinzioni anche nei momenti in cui la verità veniva insabbiata. A volte mi viene da sorridere (in un moto di pietà) quando penso quale fardello morale debbano portarsi appresso coloro che invece la verità hanno tentato di oscurarla, come il pubblico ministero che ebbe l’ardire di archiviare la mia denuncia malgrado le dichiarazioni dei miei sequestratori la confermassero in pieno; oppure il brigadiere dei carabinieri che inizialmente raccolse la mia testimonianza e rifiutò di farmi sporgere denuncia. Loro, sì, non li invidio affatto perché presto o tardi la coscienza presenta il conto. D’altronde, chi è causa del proprio male, pianga se stesso. Io sono libera e vivo libera.


Note

[1] ⬆︎ (Edoardo Andreotti Loria (membro dell’ARIS) durante una riunione a porte chiuse ha detto: «Qua siamo in piena mafia; noi siamo una associazione mafiosa, in questo momento. Tienilo presente. Perché abbiamo una idea della libertà che è diversa dall’idea degli altri…». Diritti dell’Uomo, Vol. XI, Pubblicazione 14, pag. 6)

[2] ⬆︎ Il sequestro di Alessandra Pesce è stato raccontato da lei stessa e riportato alle pagine 90-97 degli Atti del 1° Convegno di FOB e può essere ascoltato dalla sua voce nell'audio degli interventi al convegno a Montecitorio