di Silvio Calzolari — Le calamità e i disastri sembrano essere le prove più schiaccianti della precarietà della condizione umana, della fragilità delle società e di ogni costruzione culturale. Una calamità è una situazione di estrema criticità che si verifica quando un agente potenzialmente distruttivo e pericoloso colpisce una popolazione che viene colta in una situazione di grande vulnerabilità. Le calamità ed i disastri causano senso di insicurezza e terrore. Ma come si reagisce ai fattori esterni e a volte invisibili, come nel caso delle epidemie che improvvisamente possono colpire tutto quanto sembra garantire la nostra protezione e sicurezza (famiglia, casa, società)?
Le cause e le cure di un’epidemia non sono facilmente individuabili e l’invisibilità percettiva del virus può facilmente diventare cecità cognitiva. L’ansia, l’incubo reale della contaminazione, la paura, il terrore del nemico invisibile e l’ignoranza possono portarci a forme endemiche di panico collettivo. E se a queste si aggiungono le cattive informazioni e le speculazioni, il risultato che ne avremo sarà il caos. In queste condizioni di emergenza spesso si può assistere ad una vera e propria deriva della psicologia di massa che può portare all’istituzionalizzazione della discriminazione e della violenza.
Spesso da queste situazioni di crisi nasce la ricerca di un “capro espiatorio”, che certamente non risolve il problema ma che fornisce una spiegazione, sia pur fantasiosa, agli eventi negativi. In questo modo nel medioevo europeo sorse il mito dell’untore che volontariamente diffondeva il contagio tramite unguenti applicati sugli stipiti delle porte o polvere cosparsa sugli abiti delle vittime.
Così accadde specialmente tra gli anni 1321-1390 (ricordate la grande pestilenza del 1348-49 descritta da Giovanni Boccaccio nelle pagine poste ad introduzione alla prima giornata del Decamerone?). Gli ebrei, accusati di diffondere la peste, furono perseguitati e uccisi (i massacri di Strasburgo e di Colonia). Lo stesso delirio fu ripreso dalla propaganda nazista nel 1941 quando subdolamente fu sparsa la voce che gli ebrei polacchi fossero la causa della diffusione di una epidemia di tifo che aveva provocato numerose vittime nell’Europa centrale. In epoche moderne il mito dell’untore è riaffiorato con la diffusione della febbre spagnola, dell’AIDS, dell’ebola o della poliomielite. Nel 2012, in Pakistan e Nigeria, un gran numero di volontari che somministravano i vaccini anti polio furono accusati di essere untori pagati dal Governo statunitense per sterilizzare i giovani musulmani. Molti di quei giovani medici furono trucidati dagli estremisti islamici.
Recentemente il termine untore è stato affiancato da quello più neutro di “paziente zero”, ad indicare chi, come portatore di malattie, non contagia volontariamente ma rischia di contagiare gli altri. Ma anche la ricerca dei “pazienti zero” può talvolta degenerare in una vera e propria caccia alle streghe. E questo è proprio quello che sta accadendo in Corea del Sud dove i membri di un nuovo movimento religioso, lo “Shincheonji” (“Nuovo Cielo e Nuova Terra; cioè la Chiesa di Gesù e il Tempio del Tabernacolo della Testimonianza”), nell’isteria internazionale provocata dalla diffusione del cosiddetto “Coronavirus” (Covid-19), sono diventati dei veri e propri capri espiatori.
In alcuni giornali sud coreani (e la notizia è stata ripresa dai media di molti altri Paesi), i membri dello “Shincheonji”, un movimento religioso marginale di ispirazione cristiana, che in realtà sono, come molti altri loro conterranei, le vittime del contagio, sono stati descritti come “affiliati ad una setta segreta apocalittica” ed incoscienti (nell’ipotesi più benevola) o subdoli diffusori del virus. C’era da aspettarselo che prima o poi qualcuno avrebbe dato la colpa della diffusione del contagio a qualche movimento religioso ritenuto pericoloso e frettolosamente etichettato come “setta”. Era solo una questione di tempo. E, puntualmente, l’accusa è arrivata.
Ma non c’è da meravigliarsi, in fondo non c’è nulla di nuovo sotto il sole. La disinformazione esiste da sempre ed è stata da sempre utilizzata in ogni modo dai regimi di tutto il mondo per rassicurare, blandire e manipolare quello che è invece sotto gli occhi di tutti ma che è stato ed è difficile da governare.
Nella vicenda della diffusione del “Coronavirus” il Governo sud coreano sembra si sia comportato con una certa leggerezza bloccando gli ingressi dalla Cina con grande ritardo, e solo quando l’epidemia si era ormai propagata ovunque. Probabilmente, proprio per distogliere l’attenzione pubblica da quell’inadempienza, si è cercato di mescolare, in un alchimia posticcia, la verità oggettiva con le necessità politiche del momento (nella Corea del Sud si stanno avvicinando le elezioni politiche del 15 aprile ) individuando nella chiesa di “Shincheonji”, un “capro espiatorio”. Nelle informazioni diffuse da molti media sud-coreani la verità dei fatti e la ricostruzione degli avvenimenti sembrano così scontrarsi con un muro quasi insormontabile di disinformazione teso a delegittimare qualsiasi altra opinione autonoma ed indipendente.
In quest’ottica, bene ha fatto il professor Massimo Introvigne, nella sua Newsletter del CESNUR dello scorso 28 febbraio (pubblicata anche da FOB) a denunciare la campagna diffamatoria contro la chiesa di “Shincheonji”, in atto nella Corea del Sud. Come scrive Introvigne lo “Shincheonji”, che in questi ultimi anni aveva conosciuto in Corea una straordinaria diffusione, è stato da tempo attaccato da alcuni esponenti politici e membri di altri gruppi religiosi ed è diventato un ottimo “capro espiatorio” su cui riversare le colpe della diffusione del “Coronavirus”. Quali migliori untori se non gli appartenenti di un movimento ritenuto un "culto pericoloso", una “setta apocalittica” e famoso per la riservatezza nel far conoscere i nomi dei suoi affiliati? Così, invece di fare autocritica per non aver subito chiuso le frontiere e bloccato fin dalle prime notizie del contagio gli ingressi dalla Cina, alcuni esponenti del Governo sud coreano e politici vicini a gruppi religiosi rivali, tramite i media di regime, hanno accusato i membri dello “Shincheonji” di aver contagiato i cittadini di Daegu (una delle sedi del movimento) al ritorno da un loro viaggio a Wuhan, in Cina, dove si erano recati per l’apertura di una chiesa.
Ricordo che Daegu è trecento chilometri a sud-ovest di Seoul e che la città cinese di Wuhan è la località da cui si è propagato il “Coronavirus”. Il contagio sarebbe avvenuto perché alcuni esponenti del movimento (fra cui una donna di 61 anni chiamata la “paziente 31” e descritta come un vero e proprio untore) avrebbero svolto, senza alcuna protezione (mascherine e guanti), i loro servizi religiosi e senza avvertire i cittadini di Daegu di essere malati. La notizia che uno o più seguaci dello “Shincheonji” fossero gli untori è rimbalzata sui media di tutta l’Asia orientale (ne ha parlato diffusamente anche il “South China Morning Post”, quotidiano in lingua inglese di Hong Kong; articoli del 27/28/29 febbraio). Poi, con una tecnica di disinformazione cara ad un certo tipo di giornalismo, in Corea del Sud, si sono moltiplicate le interviste agli ex-seguaci del movimento religioso (solo a quelli concordi nel condannare lo “Shincheonji”) e ad alcuni famigliari dei membri di quella Chiesa (scontenti che i loro cari fossero devoti a quel culto).
Alcuni articoli del “South China Morning Post” (che riportano notizie tratte da giornali e da siti on line sud coreani) descrivono bene come oggi lo “Shincheonji” sia sommerso da accuse provenienti da ogni parte, da gruppi e individui diversi. E tutte le accuse, indipendentemente dai motivi che le hanno generate, finiscono invariabilmente per presentare quel movimento religioso come un complotto oscuro e inquietante. Sempre secondo il “South China Morning Post”, un post online descriverebbe in dettaglio i presunti piani del gruppo di infiltrarsi nelle altre chiese e movimenti religiosi per distruggerli dal loro interno. E un pastore di una di queste chiese avrebbe raccontato di aver saputo da un “informatore membro dello Shincheonji che dai dirigenti di quel movimento sarebbe giunto l’ordine di diffondere il Coronavirus negli altri gruppi religiosi” (South China Morning Post, 28/02/2020, “Coronavirus: In South Korea, mounting anger over Shincheonji Church”). In breve la notizia che alcuni membri dello “Shincheonji” andrebbero in incognito a visitare le chiese degli altri movimenti religiosi a diffondere il contagio ha fatto, nella Corea del Sud, il giro del web ed anche se è solo una diceria priva di qualsiasi fondamento è diventata un dato di fatto reale.
È molto probabile che i media del regime sud coreano abbiano usato lo “Shincheonji” come “capro espiatorio” per proteggere un’immagine globale nazionale. In precedenza ho parlato di un certo tipo di “giornalismo” che manipola le informazioni ed i fatti. Quel “giornalismo” utilizza una tecnica ben nota agli studiosi del comportamento umano: i modi di agire e di pensare delle persone corrispondono a logiche psicologiche codificate, su cui fanno leva gli strumenti della persuasione per riuscire a condizionare i comportamenti ed i pareri degli individui. Per gli studiosi della comunicazione di massa questa logica è conosciuta come “il principio della riprova sociale”: una cosa per noi è giusta e vera se anche gli altri la considerano tale. In altre parole, l’opinione ed il comportamento delle persone che ci stanno intorno influenzano automaticamente il nostro giudizio e la nostra opinione. In questo modo il criterio utilizzato per dimostrare “vera” una notizia non si basa sull’effettiva “veridicità dell’evento” ma solo sul fatto che sia ritenuto tale dagli altri membri della comunità. Così, in pochi giorni, per buona parte dell’opinione pubblica sud-coreana, condizionata dalla presunta autorevolezza di alcuni giornalisti, medici compiacenti e politici, e dall’enfasi dei media che hanno gridato al complotto, i membri dello “Shincheonji” sono diventati a tutti gli effetti gli unici untori che hanno propagato l’epidemia, e più di mezzo milione di persone hanno firmato una petizione online perché quel movimento religioso sia sciolto.
Con il diffondersi del “Coronavirus”, la società sud coreana è stata così spinta a credere che lo “Shincheonji” sia una sorta di nemico da smascherare, una società segreta” che incarnerebbe il peggio di ogni forma di religione. Ma la cosa non ci deve meravigliare. Lo “Shincheonji” non è il primo movimento della storia a diventare oggetto di un simile fenomeno di diffamazione e drammatizzazione. E qui, forse, cominciano le sorprese. Analizzando gli eventi ed incrociando le fonti, “Bitter Winter, A Magazine on Religious Liberty and Human Right in China” (“Inverno Amaro, Rivista sulla Libertà Religiosa e i Diritti Umani in Cina”) ha ipotizzato che le persecuzioni di alcune minoranze religiose, in Cina (ma anche in Corea), non siano dovute solo alle rivalità di qualche chiesa rivale, alle diffamazioni di alcuni leader politici avversi o all’enfasi di un certo tipo di giornalismo che manipola le informazioni. Costoro sarebbero solo gli amplificatori di un messaggio elaborato da alcuni gruppi antireligiosi di potere, che potrebbero essere i veri ideatori delle menzogne, poi diffuse da una certa stampa. Qualcuno potrà pensare: “è solo una ipotesi fantasiosa! Ecco di nuovo riaffiorare il mito della congiura!”.
Ma l’ipotesi sembra diventare certezza, quando lo stesso “Bitter Winter”, in molti dei suoi articoli, come in quello del 9 maggio 2018 (“Report on Israel Sheds Light on How China uses International Anti-cultist”, cioè: “Rapporto su Israele fa luce su come la Cina utilizzi gli anti-sette internazionali”) ha posto in evidenza come il Partito Comunista cinese sia legato ad una rete “anti-sette” internazionale tesa a diffamare le minoranze religiose: “… mentre agli inizi la rete anti-sette (anti-cultist) internazionale rappresentava solo gli interessi privati, nel XXI° secolo è sempre più connessa con i regimi che perseguitano le minoranze religiose e che fanno affidamento su di essa per giustificare le persecuzioni”. E ancora, “Bitter Winter” ha riferito di come gli anti-sette coreani abbiano collaborato con il Partito Comunista cinese nell’organizzare false “manifestazioni spontanee” contro i rifugiati della “Chiesa del Dio Onnipotente” (“The Church of Almighty God”) in cerca di asilo nella Corea del Sud.
Il rapporto citato dall’articolo di Bitter Winter, redatto a cura di HRWF (Human Rights Without Frontiers), denuncia i legami tra il Partito Comunista Cinese e la rete anti-sette internazionale capeggiata dalla francese FECRIS e dal suo vice-presidente Alexander Dvorkin[1], un ex-prete ortodosso russo che deve la sua notorietà alle attività di repressione delle religioni “non ortodosse” in Russia e al sostegno della repressione operata dal governo cinese contro qualsiasi religione “non autorizzata” dal partito.
I recenti eventi in Corea potrebbero dimostrare quanto siano forti ed influenti questi movimenti anti-sette internazionali sempre pronti a giustificare la persecuzione dei membri dei movimenti religiosi percepiti come nemici e portatori di disgregazione sociale.
Ma torniamo alle vicende del nostro “Shincheonji”. Con la minaccia invisibile del contagio che si sta diffondendo sempre più, in Corea la paura è diventata estesa e profonda e a poco sono valse le dichiarazioni dei portavoce della chiesa tese a rasserenare gli animi, e a poco sembra valere che lo “Shincheonji”, per cercare di contenere il virus, stia cooperando con il “Centro Coreano per il Controllo delle Malattie” (KCDC), che abbia in questi giorni fornito al Governo la lista completa dei sui membri coreani e che su di loro abbia fatto testare, a sue spese, la presenza del virus.
Per gettare un ombra su questi gesti di buona volontà il Governatore della provincia di Gyeonggi (Corea del sud), Lee Jae Myung, alla fine del mese di febbraio, si è affrettato a raccontare, in una intervista radiofonica alla radio sud coreana TBS, come quel gruppo religioso si fosse inizialmente ben guardato dal collaborare con le autorità. Ed effettivamente lo “Shincheonji” inizialmente non aveva consegnato alle autorità sanitarie la directory dei membri e gli elenchi dei contatti. Quel ritardo è costato caro allo “Shincheonji” perché tutte le sedi coreane di quel movimento sono state chiuse (secondo i media per essere “sanificate”). È del 2 marzo 2020 la notizia che il Governo sud coreano abbia chiesto di procedere penalmente contro gli alti esponenti dello “Shincheonji”. In quello stesso giorno Lee Man-hee, il leader del movimento, in un drammatico discorso alla tv sud coreana, è stato costretto a chiedere, in ginocchio, pubblicamente scusa per i ritardi nella consegna delle liste dei membri del suo movimento. Ritardo che secondo Park Wen-soon, il Sindaco di Seoul, ha provocato la morte di molte persone, perché le misure preventive avrebbero salvato molte vite.
Ma la paura e l’ostilità verso lo “Shincheonji” sono in aumento non solo in Corea del Sud ma anche in altri Paesi asiatici. Un sito dell’Agenzia governativa di Singapore (mha.gov.sg. 28/02/2020) ha lanciato l’allarme non solo sulle reali possibilità che i membri dello “Shincheonji” possano trasmettere il contagio ma anche per l’attività di proselitismo che il movimento avrebbe svolto in quella città-stato. Lo stesso sito ha poi rivelato, con curiosa sollecitudine e preoccupazione, come lo “Shincheonji”, nei mesi precedenti all’epidemia, avesse cercato di registrare a Singapore una società con il nome di “Heavenly Culture, World Paece and Restoration of Light” (HWPL), ed avesse incorporato alcune società di facciata (come la Spasie Pte Ltd.) e una impresa denominata “Kings Ave”, per: “fornire servizi, fare formazione aziendale e tenere seminari per lo sviluppo personale, ma che in realtà sarebbe servita per affittare una proprietà da utilizzare come tempio”. Subito dopo il diffondersi dell’epidemia il Governo di Singapore sulla base di rapidissime indagini ha rilevato come “il capitolo locale di Shincheonji abbia utilizzato mezzi ingannevoli di proselitismo così da potersi infiltrare negli altri gruppi religiosi” e, dopo aver bloccato ogni attività di quel movimento ha deciso di agire per vietarne il culto.
Che dire? La cosa è ben strana in una città come Singapore aperta ai movimenti religiosi di ogni tradizione (con qualche eccezione per i “Testimoni di Geova” che si rifiutano di prestare il servizio militare obbligatorio). L’articolo 15 della Carta costituzionale di Singapore garantisce a tutti il diritto “di professare, praticare e diffondere la propria religione”, anche se il Ministro dell’Interno, in nome del “mantenimento dell’armonia religiosa” in tutto il territorio nazionale, può (tramite una legge approvata nel 1990) emettere ordini restrittivi nei confronti di chi istiga all’ostilità verso i membri di altri gruppi religiosi, o per attività sovversive o legate al terrorismo.
Sulle vicende della persecuzione dello “Shincheonji” ci sono ancora molte cose da chiarire e FOB ne parlerà ancora.
[1] ⬆︎ FOB si è occupato spesso sia di FECRIS che di Alexander Dvorkin. Cliccare sui rispettivi link per un elenco di articoli.